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Il Dio Toro e la Dea Madre

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di

Albino Lepori

 

Gli antichi Sardi veneravano il Dio Toro assieme alla Dea Madre.

La pianta della tomba dei giganti richiama immediatamente una testa di bovino le cui corna sono costituite da un muro a semicerchio, l'esedra, a lato dell'ingresso; e il muso dal corpo della tomba. Secondo un’altra opinione abbastanza diffusa, l’esedra e più in generale la planimetria delle tombe dei giganti volevano rappresentare il ventre materno, con un significato riconducibile alla rigenerazione della vita. La pianta della tomba dei giganti rappresenterebbe la speranza della sopravvivenza dopo la morte. La falce della luna richiama le corna del toro: correlate alla Grande Madre, intesa come massima divinità della fertilità, genitrice e nutrice.

Peraltro, anche l’appellativo di “Medusa”, attribuito al castello di Lotzorai, potrebbe fare riferimento alla Dea madre. E ciò, potrebbe svelare il mito secondo cui il castello sarebbe stato innalzato o almeno abitato da una principessa di Navarra, che avrebbe anche fatto edificare la chiesetta di Santa Maria Navarrese. Sebbene, secondo la tradizione di Lotzorai, sia stata una principessa di nome Locana a far costruire il castello, lasciandovi serve e ancelle che dopo la sua partenza diedero origine al paese. A questo deve anche riferirsi la leggenda della mitica fondazione di Tortolì e Lotzorai, rispettivamente da parte del troiano Ilio e della cugina Leucasia. Quest’ultima avrebbe fondato la città di Leucasia nel luogo detto Tancau, presso Lotzorai: che secondo la leggenda, nei tempi antichi, si chiamava Locorai, nome derivato dalla sua principessa fondatrice Leucasia.

Medusa è un nome legato a varie località. Così è per il castello di Samugheo; e se ne parla anche nel territorio di Orune dove, secondo un'antica memoria, si troverebbe la sua tomba. I miti che circolavano in Sardegna, intorno a Medusa, non parlavano di teste crinite di serpenti, ma di colei che dominava, Medéusa, la Signora, la Protettrice: titolo che si dava a Demetra, appunto, la Dea madre, per i Greci. La Cerere della mitologia romana: una divinità materna della terra e della fertilità, nume tutelare dei raccolti, ma anche dea della nascita, poiché tutti i fiori, la frutta e gli esseri viventi erano ritenuti suoi doni. In Sardegna, la Dea madre doveva essere assimilata all’antichissima dea italica Diana, signora delle selve e delle belve, custode di fonti e torrenti, dea della Natura e dell'agricoltura. Come tutte le Grandi Madri primigenie, aveva tre volti: nascita, crescita e morte. Nella sua qualità di Dea della nascita, aiutava le gestanti a partorire; così come faceva fiorire la vegetazione in primavera. Solo più tardi, fu assimilata ad Artemide che in sardo diventa Jana e rappresenta la luna.

Secondo la tradizione, nelle tumbas de gigantis venivano sepolti dei giganti. Le domus de janas, chiamate erroneamente “case delle fate”, in realtà non erano abitazioni di esseri piccolissimi; e le tumbas de gigantis non erano tombe per “esseri giganteschi”. Si trattava semplicemente di tumulazioni collettive realizzate con due sistemi architettonici differenti e in diverse epoche. I giganti - dice il mito - erano nemici delle janas. Quelli erano più forti, ma queste erano armate dell'intelligenza che le faceva uscire vittoriose da ogni battaglia.

Le leggende sulle janas sono tantissime anche in Ogliastra. L’opinione più comune vuole che esse siano piccolissime, vestano minuti vestiti e vivano in case altrettanto piccole. A Tortolì, le janas s'immaginano come streghe o maghe; e si aggiunge che avevano delle mammelle lunghissime che gettavano dietro le spalle, sia per allattare i bambini, che portavano dentro a delle ceste legate sulla schiena, sia perché non toccassero terra quando lavoravano; ed erano munite di lunghe unghie d'acciaio con le quali scavavano le loro dimore. Diverse leggende parlano di janas molto ricche, ornate di gioielli, che durante certe feste notturne scendevano dai monti, ove avevano la loro dimora, e si mischiavano nella danza agli abitanti dei paesi. Oppure, che alla nascita di un bimbo, si avvicinassero di notte alla sua culla decretandone la buona o la cattiva sorte. Altre leggende, riferiscono che le loro ricchezze consistevano in casse piene di fazzoletti ricamati con fili d'oro, in pezzi di broccato e altre stoffe preziose. Esse possedevano il dono della profezia e spesso il destino degli uomini era determinato dal loro volere.

                È molto diffuso anche il toponimo Sa Dom’e s'Orku, usato per indicare sia tombe dei giganti, sia domus de janas, e anche per i menhir e i nuraghi. L’Orco nella mitologia romana è il sovrano del Regno degli Inferi e divoratore di uomini insieme al suo mostruoso cane Cerbero. Per altri, Orku sarebbe anche sinonimo di “gigante”, corruzione in senso simbolico di Ercole. Riferita agli uomini insigni della famiglia, denominati anche Is Mannus: degni del culto animistico dell'apoteosi come eroi. Come gli dèi Mani dei Latini, che erano gli spiriti benigni degli antenati, onorati come divinità.

I menhir erano l'espressione visiva delle divinità alle quali si rendeva omaggio, con preghiere e doni, per impetrare guarigioni e grazie; ma anche per propiziare la fertilità della terra. Nell’adorazione degli esseri supremi, gli idoli di pietra che proteggevano il sepolcro megalitico, era inclusa anche la venerazione delle anime dei trapassati custoditi nella grande tomba comune. Le pietre fitte sono anche conosciute con il nome di betile, che in punico significa “Casa del Dio”.

San Gregorio Magno, nella sua lettera diretta a Ospitone, duce dei Barbaricini, fa conoscere al mondo che i Sardi della Barbagia adoravano le pietre: «... mentre tutti i barbaricini vivono come insensati animali e non conoscono il vero Dio, ma adorano le pietre e il legno, tu solo adori il vero Dio». Egli, però, nel dileggiare i Barbaricini dimenticava che a Roma, Caput mundi, dal tempio di Giove Feretrio si prendeva la Lapis silex, la pietra sacra che i feciali portavano con sé recandosi a stringere trattati, e per Jovem Lapidem si giurava. Alle pietre termini, usate per delimitare i confini di proprietà, si rendeva culto nelle Terminalia: la festa che i Romani, in onore del dio Termine, celebravano il 23 febbraio.

... E i confini sono sacri.

In località Nurtài, tra Tortolì e Barì, sorge il menhir Perda Longa. Si racconta di un'anziana che praticava la magia, la quale consigliò a una donna sterile di recarsi presso quella Pietra e, senza farsi vedere, sfregare il ventre nudo sulla colonna, recitando una preghiera tra il sacro e il profano. L'idea implicita era che certi sassi possano fecondare le donne sterili, sia grazie allo spirito dell'antenato che vi ha sede, sia in virtù della loro forma, o dell’origine. Non va, comunque, dimenticato che tra le pratiche della religiosità cristiana legate alla fertilità, vi è quella che consiglia di appoggiarsi, o addirittura sdraiarsi, sulla statua di un santo, considerato taumaturgo e capace di favorire la gravidanza.

I monoliti di Nurtài, erano tre: uno eretto e due stesi a terra. Nella consuetudine bariese, sarebbero stati i corpi pietrificati di tre sorelle. Avendo promesso di portare tre mazzi di fiori a san Salvatore, alla “Monserrata” e a san Gerolamo li raccolsero; ma mentre si recavano in chiesa, a metà strada, affaticate, cambiarono idea e decisero di tornare indietro. Dio, irato, le fulminò tramutandole in pietra. Altra leggenda, tortoliese, vuole che Perda Longa, stesa a terra, portasse incisa la scritta: «Chi mi solleverà troverà una bella sorpresa!». La curiosità e il miraggio di trovarvi un tesoro, unu scusorgiu, non tardarono a invogliare qualcuno a sollevarla mettendola in posizione eretta... E il tesoro? Sul rovescio della pietra stava incisa la scritta: Immoi istu mellusu! – ora, sto più comoda!

Quei monoliti segnano anche il confine dei territori di Tortolì e Barì.                                           

Letto 11568 volte Ultima modifica il Giovedì, 06 Dicembre 2012 17:28