di Federica Rosa

 

Tutto ebbe inizio in quel giorno di un autunno non ancora definito dal tempo, un ventidue settembre del 1947, quando l'aria sapeva ancora di guerra e di rinascita.

Piantai il seme della vita mia in una terra d'infanzia presto pronta ad essere terra di ricordi e vini, alberi e fronde, olivi così grandi da sottolineare la mia piccolezza di bimbo rosso e tenue, ruscelli, montagne e neve, sole, vento, paura, natura, natura, natura.

Intrecciavo pensieri di fuga con i rami della mia stabilità, intrecciavo il futuro col presente, con la sapienza solita di chi cerca per sapere, di chi scappa per imparare.

Spezzai d'un tratto quei rami, senza rimorsi o dubbi; deciso, come un albero che non vuole radici e foglie, mi buttai a capofitto in quel vortice chiamato esistenza che giorno dopo giorno mi legò ad altre vite, altri nodi, nuove storie, accenti e facce, città tante, natura nuova e poi d'improvviso io stesso nuovo e altro legato, intrecciato, annodato, mescolato e infine padre.

Conobbi così il secondo giorno di una fredda primavera il mistero della creazione, un nuovo ramo stringevo forte al petto mio; piangeva forte di distacco e di vita, lo intrecciai alle mie mani di giovane uomo, non più bambino o seme ma tronco forte, pilastro della vita sua.

In quest'Ogliastra, terra aspra e pura, dove i monti hanno l'odore del mare invernale e gli sguardi delle persone son più profondi dell'anima di un dio, io invecchiai intrecciando, raccogliendo, tagliando, osservando e chiudendo, questi esili rami di legno chiaro, raccolti nella solitudine di pomeriggi soleggiati quando i pensieri non danno tregua e la natura ti assiste.

Intrecciavo per diletto e come metafora della vita mia.

Riunivo parti distinte di alberi fino a creare la magia di un nuovo figlio: cesti capienti come ventri di donna, rotondi e accoglienti, piccoli e perfetti da prendere per mano e portare via, verso i sentieri che conducono ai frutti più maturi, ai funghi più rari, lontano, là, dove la roccia diventa terra e il cielo assomiglia all'infinito.

Lontano.

Come me da me, vicino, anzi vicinissimo, attaccato, a voi figlie mie.

Per voi, figli miei, mani arcaiche di intrecci tradizionali, che protendono fili d'albero a un futuro incerto.

Incerto e vero come la mia memoria che ancora intreccia e tesse in un continuo e incessante divenire; che guarda indietro per camminare avanti e intrecciare mani come rami di queste vite fatte ad albero piene e intricate come i miei cesti e i miei pensieri.