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Fabio Fanelli

Fabio Fanelli

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 21:01

Il mistero degli occhi color smeraldo

di

Michela Tuligi

 

Arrampicandosi sulla montagna, percorrendo la strada tortuosa che giunge fino al paese, lo sguardo viene ipnotizzato da quel luogo di cui il tempo sembra essersi dimenticato, lasciandolo inalterato allo scorrere degli anni. Da un lato la distesa azzurra del mare, dall’altro il verde dei boschi, una meravigliosa e fitta vegetazione costituita da carrubi rigogliosi e boschi di lecci secolari, un pezzetto di quella terra meravigliosa che è l’Ogliastra.

Quel giorno era la festa di Sant’Antonio Abate, “de su fogone”, la celebrazione del santo eremita che scese fino all’inferno e con grande astuzia riuscì a rubare il sacro fuoco al diavolo, donando così luce e calore all’umanità. In suo onore ogni anno veniva acceso un fuoco votivo, propiziatorio per una buona annata agraria, per proteggere il bestiame, per scacciare gli spiriti. Pietro si trovava vicino al falò crepitante e osservava incantato la splendida ragazza di fronte a lui. I suoi occhi erano splendenti, grandi e verdi, le lunghe ciglia scure li facevano risaltare ancora di più, la pelle del viso era diafana, se non fosse stato per il calore del fuoco che le colorava le guance di rosso, il volto incorniciato da una folta chioma di capelli corvini e lucenti. Indossava una “fardetta” nera, sulle spalle portava lo scialle pesante a sfondo blu, orlato da una lunga frangia, con sotto una camicetta bianca in pizzo, decorata dai “buttones” d’oro la cui scollatura metteva in risalto la pietra di ossidiana nera incastonata nell’argento che portava al collo. Un amuleto che le donne del paese portavano fin da piccole per sottrarsi alle insidie del malocchio. Una pietra tonda che simboleggia l’occhio buono e che attira lo sguardo dell’occhio malvagio annullandone l’effetto.

Si dice infatti che gli occhi abbiano il potere di trasmettere all’esterno le forze nascoste nel corpo. Per questo nel corso della storia molti mali dell’uomo sono spesso stati attribuiti all’ energia dello sguardo. Secondo la tradizione esistono persone che esercitano la pratica malefica “de s’oglu malu”, occhio cattivo appunto, anche involontariamente, con il semplice atto di posare lo sguardo su un'altra persona. Maria, dicevano, era una di queste e per questo nel piccolo paese di Baunei nessuno osava guardarla negli occhi. Le persone solitamente stavano alla larga da lei e quando si avvicinavano portavano sempre in tasca un ramoscello di lentischio o di ulivo in modo tale da difendersi dalle forze avverse.

Pietro conosceva molto bene le maldicenze che la riguardavano eppure, invece che evitarli, era come ipnotizzato da quei profondi occhi smeraldo, di un colore così intenso che si rischiava di perdersi nelle mille sfumature che in essi si potevano scorgere. Pratiche magiche, preghiere recitate e amuleti, erano tutti riti che Maria conosceva bene fin da bambina. In paese erano poche le persone che custodivano segretamente le formule per individuare la presenza del malocchio e per scacciarlo, riti che possono essere tramandati soltanto in linea femminile. Filomena: la nonna di Maria, era una di queste, una delle poche persone ancora in vita capace di curarlo, di praticare quella che veniva chiamata “sa megina e s ‘oglu”. Nonna e nipote vivevano insieme e ogni giorno avevano a che fare con questi influssi malefici, avevano imparato bene a riconoscerne la presenza nei visi disperati di chi bussava alla loro porta. Molti ritenevano però che tutto quel male che la signora Filomena liberava da quei poveri cristiani non poteva svanire nel nulla e secondo il pensiero di molti i magnetici occhi verdi di Maria erano diventati ben presto custodi di quelle forze malvagie.

Era la sera del 17 Gennaio, una notte piuttosto fredda, il falò era stato acceso tra le urla gioiose dei partecipanti. Esiste veramente qualcosa di meraviglioso nel fuoco, si rimane come incantati di fronte alla bellezza dei colori che esso può creare, intimoriti davanti alla sua forza, tutto infatti esso può distruggere, ma allo stesso tempo è come se rappresentasse la rinascita, il fuoco porta la luce, è in grado di rischiarare il buio, di scaldarci, di tenerci compagnia. Timore e fascino insieme, molto simile all’effetto che in quel momento Pietro provava in presenza di Maria. Lei si trovava lì, ignara di tutto, davanti a quell’enorme falò che bruciava come se fosse una gigantesca torcia, quando improvvisamente uno sguardo si incrociò con il suo, per due secondi al massimo, ma probabilmente i due secondi più lunghi che le fossero mai capitati. Era inaspettatamente piacevole, la sensazione di sentire gli occhi di un altro poggiati su di lei. Una sensazione nuova, visto che solitamente le persone rifuggivano il suo sguardo invece che cercarlo. In quella sera di Gennaio, Pietro le rubò il cuore e Maria conquistò il suo. Maria si sentì immediatamente in colpa, sapeva bene che ciò che causa il malocchio è un atto difficile da controllare, immediato come un incontro di sguardi, proprio ciò che era successo tra di loro. La paura che le persone avevano di lei la leggeva ogni giorno nei volti chinati della gente, nei bisbigli che seguivano il suo passaggio, nella faccia triste della nonna quando la guardava. A furia di sentirselo dire aveva finito per credere che in lei veramente qualcosa non andasse. Doveva allontanarlo immediatamente prima di fargli del male.

La festa intanto proseguiva nell’allegria generale, i bambini si rincorrevano per “infoddinarsi” a vicenda con la fuliggine dei tronchi bruciati, i giovani gustavano la “paniscedda”, tutti ballavano felicemente al ritmo delle “launeddas”. Lui le si avvicinò per presentarsi, ma Maria lo allontanò bruscamente, avvertendolo di quanto fosse pericoloso starle vicino. Ma a Pietro non importava, una creatura così perfetta non poteva custodire al suo interno forze malvagie, ne era certo. Non si sarebbe mai arreso alla perdita di quella che ormai, ne aveva la certezza, era la donna della sua vita.

La mattina dopo, si presentò di buon ora a casa di “sia Filumena”, solo lei poteva dimostrare a Maria che il suo sguardo non era cattivo e che Pietro non era stato colpito dal malocchio. La nonna acconsentì perché sapeva che questo era l’unico modo per liberare la nipote da una maledizione che la perseguitava fin da piccola. Prese subito un piatto colmo d’acqua sul quale fece una croce con la mano destra, lasciò cadere in esso cinque granelli di sale grosso, recitando per 5 volte una preghiera a voce bassissima, per ogni granello lasciava cadere anche una goccia d’olio. Pietro sapeva che se le gocce d'olio rimangono separate e piccole, non c'è malocchio; se al contrario si spandono o si uniscono, allora c'è l'influsso negativo. Davanti allo sguardo incredulo di Maria le gocce rimasero separate e piccole, significava che i suoi occhi non erano malvagi e che finalmente poteva vivere libera dai pregiudizi e insieme al suo amore proseguire la sua vita. Le lacrime che ora le rigavano il viso erano lacrime di gioia.

La magia non l’avrebbe però abbandonata, la nonna infatti era anziana ed era giunta l’ora di tramandare i preziosi segreti di una cura che aveva gelosamente custodito fino ad allora. Una dote che si tramanda di generazione in generazione, sempre in linea femminile e che Filomena, ormai prossima alla morte, si decise a regalare alla nipote. “Sa megina e s’oglu” è molto di più di una ricetta composta di olio e di sale, è un’ insieme di elementi magici e religiosi, un misto di preghiere recitate, di croci, ma soprattutto di fede. È la preghiera ad avere il potere e questo potere lo acquista solo una volta trasmessa e solo dopo la morte di chi l’ha lasciata in eredità.

I profondi e misteriosi occhi di Maria erano sempre stati temuti, perché si pensava che custodissero il male, l’intero paese si rivolgeva ora a lei chiedendo di essere liberato da quegli stessi influssi malefici di cui per tanto tempo era stata invece la causa. Era diventata colei che è in grado di combattere quel nemico silenzioso e impalpabile quale è il malocchio.

 

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 21:57

La settima Rosa

di

Elisa Tuligi

 

Una giovane donna dai lunghi capelli selvaggi e neri era seduta al tavolino del bar e sorseggiava il suo caffè bollente. Lo beveva da sempre uguale come sua madre e sua nonna, nero come il suo futuro, e amaro come la delusione di chi ha creduto nei sogni. Aveva un viso superbo e sfrontato ma non privo di dolcezza e femminilità, e lo sguardo altero di chi sa di essere bella.

Era arrivata da poche ore e ancora si chiedeva il perché di quel viaggio. Il desiderio di andare alla scoperta del suo paese d’origine era sorto in lei improvvisamente e ora dopo due giorni si ritrovava lì, in quell’angolo di mondo dal quale la nonna, ultima superstite di 7 figlie femmine, era fuggita inspiegabilmente 50 anni prima, e dall’ora la nostalgia le aveva segnato il volto.

Da quando la madre di sua madre era morta le erano successe un sacco di cose strane e probabilmente era stato l’istinto della sopravvivenza a spingerla fino a quel pezzo d’isola a cercare delle risposte, come attratta da un’inspiegabile energia.

Si chiamava Veneranda come sua nonna. Da lei aveva ereditato non solo quel nome antico e forte ma anche lo stesso sguardo intenso e impenetrabile, gli stessi occhi neri, lo stesso fascino ammaliatore pieno di forza misteriosa, lo stesso carattere fiero. Condividevano la stessa rassegnazione per un destino triste e ineluttabile, di donne forti ma costrette a una vita di solitudine, senza amore e senza comprensione. Una dannazione che sembrava affliggere da secoli tutte le donne della famiglia. Da quella stessa nonna aveva ereditato anche abitudini bizzarre come quella di raccogliere tutti i capelli che le cadevano quando si pettinava per poi distruggerli nel fuoco, perché come le aveva insegnato, la più piccola cosa appartenente a una persona rappresenta la persona stessa. E dai capelli, come da ogni altro suo oggetto, si poteva agire contro di lei. Cose che non capiva ma che faceva da sempre senza chiedersene il motivo.

Veneranda sapeva che la loro antenata più lontana si chiamava Maria e qualcosa le diceva che in un certo qual modo era lei la causa delle loro sciagure. Se lo sentiva perché in casa la sua storia era da sempre avvolta nel mistero, racconti sussurrati a mezza voce quando credevano che dormisse ma di cui purtroppo poco ricordava. Ordinò un altro caffè nel tentativo di schiarirsi le idee. Era dicembre ma stretta nella sua sciarpa di lana pesante stava bene lì fuori. Sembrava così dolce e tranquillo l’inverno a Baunei ma infondo cosa ne sapeva.

Attorno a lei si respirava il silenzio interrotto solo dal mormorio delle anziane signore che camminavano raggomitolate in accoglienti scialli, rigorosamente scuri, come avvolte da un lutto perenne. Un anziano signore dal volto bruciato dal sole e dai lineamenti profondi e decisi la fissava con insistenza dall’altro lato della piazza, Veneranda beveva il suo caffè e cercava di ricordare quel poco che sapeva sulla sua antenata. Rammentava che Maria fu rapita dai Mori e portata in Africa e che solo 40 anni dopo fece ritorno nella sua terra, a Eltili, poco lontano da lì, ma profondamente cambiata. Pregava e in modo strano, vestiva in modo strano, aveva dei tatuaggi ed era esperta in sortilegi e incantesimi. Forse proprio grazie alle sue doti sovrannaturali fu l’unica a sopravvivere a una pestilenza che si abbatté sul paese e diventò padrona incontrastata del villaggio e delle terre intorno. Stanca di vivere in un paese fantasma si spostò in quelli vicini decisa a donare tutto a chi le avrebbe mostrato un pò di generosità. Durante il tragitto un pastore di Baunei la accolse benevolmente e fu così che in cambio dell’ospitalità Maria offrì in dote i suoi territori al paese, da Cala Luna a “Su ponte ‘e sa pruna”. Entrò così a far parte della comunità, temuta e riverita come una strega per via degli infusi magici e degli unguenti curativi che preparava.

Il pastore che ospitò Maria aveva 7 figli che in qualche modo si legarono indissolubilmente alla donna con una promessa. Gli eredi di queste famiglie, ogni 7 anni, si riuniscono a turno per celebrare una messa nella chiesa di Eltili, unica costruzione rimasta dell’antico villaggio. Quel pastore aveva una sola figlia femmina, l’ultima dei 7. Veneranda era la sua unica discendente rimasta in vita.

Non aveva idea di che ore fossero, ma non prese dalla tasca il telefono per controllare, perché sapeva che in quel luogo erano le ombre, il canto del gallo e i rintocchi del campanile a segnare il ritmo della vita. Lì le campane parlavano, scandivano l’esistenza e il tempo insieme al sole e alla luna e il loro suono era un linguaggio che narrava di gioie e dolori, di vita e di morte.

Stava per alzarsi a chiedere il conto dei suoi caffè quando tre ragazze giunsero nell’incrocio di strade proprio davanti a lei e fecero sdraiare un bambino al centro di esso. Una di loro reggeva una stadera e le altre due sollevarono il bambino posandolo a turno sul piatto della bilancia. La prima pronunciò le parole «geo du peso po fare a malu» e la seconda invece disse «geo du peso po fare a bonu».

Era ancora lì immobile a guardare quella scena surreale quando il vecchio che la scrutava attento le si avvicinò per tradurle quello strano rito. Le spiegò che il piccolo soffriva di un male che loro chiamavano su «gaggiu furriau», lo stomaco rovesciato e questo era il rimedio che doveva essere svolto da tre donne di nome Maria. Erano le regole di questo mondo. Un mondo fatto di sputi utilizzati come “cura” contro lo spavento, di Strie che comparivano poco prima di una disgrazia, di falò accesi il 17 gennaio, e delle sue ceneri raccolte e utilizzate per filtri benefici. L’uomo aveva parlato con calma, la sua voce aveva il suono di una cantilena soave che già conosceva.«Tua nonna era bella ma pazza», le disse prima di allontanarsi. L’aveva riconosciuta.

Veneranda si sentiva ormai parte di quel mondo, nasceva in lei una nostalgia di qualcosa che in realtà non aveva mai vissuto ma che forse risvegliava ataviche memorie registrate nel suo DNA.

Cominciava a fare freddo e il sole ormai tramontava e doveva andare a vedere la casa, la sua casa. Pur non spiegandosene il motivo, non aveva bisogno d’indicazioni. Sapeva di trovarla lì, in cima al monte, dove la terra confinava con il cielo, nascosta da un muraglione in tufo semidistrutto. Ai suoi tempi doveva essere stata grande ma ora non sembrava altro che una vecchia casa abbandonata, forse unica custode di orribili memorie e segreti che nessuno aveva voluto ancora svelarle. Fu allora che sentì quel profumo sconosciuto eppure così familiare. Sapeva già che profumo era. La nonna gliel’aveva descritto così, dolce e pungente. Si girò e la vide. S’orrosa e margine, bella e magicamente viva. E lei sapeva che era troppo presto, che non fiorisce per più di quindici giorni, eppure sembrava essere lì da sempre, immobile. E sapeva dei suoi poteri.

Infilò la chiave nella vecchia serratura arrugginita e il portone si spalancò rumorosamente. Si aspettava di vedere polvere e ragnatele ricoprire ogni cosa invece quel luogo sembrava rimasto inalterato nel tempo. Dalla sua bocca uscirono delle parole incomprensibili che lei non aveva mai udito, mai letto: "Adonay, tarabulis, arabonas, murgas, jerablem, dalzafios, abrox, balaim, gazal". E finalmente capì. La nonna viveva in un mondo fatto di erbe e infusi, di preghiere che odorano di magia, di scongiuri e formule magiche, di saperi profondi che però avevano a che fare con la vita e con la morte e che si erano trasformati in una maledizione e l’avevano costretta alla fuga dalla sua terra. Adesso quel mondo era anche il suo perché certe cose si ereditano e basta. Come la pelle olivastra e il colore degli occhi, come il caffè. E non tele spieghi. Perché i legami con il sangue e con la terra sono per sempre, oltre la vita e oltre la morte. Veneranda ora sapeva. Era una strega. Come sua madre, come sua nonna, come lo sarà sua figlia, come lo era Maria. E aveva deciso di non scappare perché nelle sue radici stava la sua forza.

 

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 19:52

Effetto Janas

 

di

Luca Schirru

Tornai sulle rocce di Teccas sette anni e mezzo dopo. A sud di casa c’era il mare e in mezzo al mare i faraglioni, punte di roccia rosse s’innalzavano nove o dieci metri verso il cielo. Nel bruciore dell’estate i turisti ci arrivavano in canoa o in pedalò scivolando sulle nostre acque luccicanti, si arrampicavano e poi si lanciavano giù a turno, oppure insieme, con il rischio di precipitare rovinosamente uno sopra la testa dell’altro. Gli eroi si tuffavano di testa, facendo un balzo verso l’alto e allungando ogni muscolo del corpo per entrare dentro il mondo blu con un’eleganza che non mi è mai potuta appartenere, altri raggomitolavano il corpo in una palla che esplodeva in una bomba di schegge di schizzi di schiuma. Io guardavo dalla scogliera del vulcano spento di Teccas e Giulia, accanto a me, diceva che un giorno ci saremmo dovuti andare pure noi a nuoto fino a li, arrampicarci e buttarci giù con gli occhi chiusi e le braccia in alto per goderci al meglio il contatto con il mondo magico di quel mare. Lo chiamava “effetto janas” in onore della nostra tana e, ogni volta che qualcuno tuffandosi scompariva dentro il mare, gli occhi le brillavano e i pugni le si stringevano dall’emozione come se gli spruzzi la raggiungessero trasmettendole parte di quella sensazione di libertà. Io, per tutto il tempo in cui mi raccontava di quel giorno in cui l’avremmo fatto, trattenevo il fiato e poi espiravo a lungo fino a tirare fuori tutta l’aria come avessi visto le nuvole bianche sopra il cielo dopo aver toccato il fondo. Andammo fino al molo a piedi e ci sedemmo sui blocchi di pietra che dividevano il porto in due. Con le gambe a penzoloni guardammo i pesci cercare cibo a pelo d’acqua fino all’arrivo della barca di Maiorca, cuffietta in testa anche d’estate, che ci chiese di dargli una mano a portare a terra il pesce. Giulia si alzò, io rimasi fermo con le braccia a dondoloni sulle ginocchia fino a che Maiorca non mi sorrise, Francé che aspetti? Allora, certo di essere stato coinvolto, saltai sulla sua imbarcazione, presi due cassette e con la mano buona, nascondendo lo sforzo come meglio mi veniva, le portai fino alla vecchia 127 rossa parcheggiata in fondo al molo. Mi voltai e guardai divertito Giulia, con una bustina di orate, avvicinarsi ancheggiando come fanno le modelle. Un leggero venticello mi rinfrescò il viso. Fu proprio in quel momento, diventando seria, che mi confessò sussurrandolo come se in quel modo potesse farmi meno male, che i genitori avevano deciso di andar via e lei, dalla sera del giorno dopo, primo giorno del nostro secondo anno di medie, non sarebbe più stata né la mia compagna di banco né quella di giochi. A casa misi la testa sotto il cuscino e mentre piangevo provai a ridere, per cercare di alleviare il peso sul cuore e per paura di non riuscirci. Era una cosa che facevo sempre per una specie di ansia che avevo, quando piangevo distendevo le labbra e cercavo di trasformare la tristezza in un sorriso. Mi alzai dal letto, portai una sedia davanti al grosso specchio arancione della camera e seduto, con il viso invaso dalle lacrime, distesi i muscoli della faccia fino a trovare un’espressione che potesse assomigliare vagamente alla gioia.

 

Non mi piace per esempio, e glielo dissi la mattina dopo, giorno della partenza di Giulia, che non mi piace per esempio l’ostentazione dei sentimenti oppure tutte quelle vocali ripetute alla fine di una parola, tipo: amoreee oppure cariniii oppure ti voglio beneee, ecco questo non mi piace. Mi piace invece, come eccezione del caso, mi può piacere che le vocali si sprechino se la parola è libertà ecco, sono liberooo è differente da sono libero, allora penso questo il mio apparato digerente lo riesca ad accettare. Libertà è una parola che ha bisogno di esuberanza. Sensibilità invece, se non è una parola ma una sensazione, un sentimento, una cinghia stretta in vita, se è queste ultime tre cose è una lama a doppio taglio.

 

Mia madre sorrise e disse Amoreee miooo, allungando le vocali all’infinito e con una voce dolce che mi venne da pensare il contrario di quello che, fino a quel momento, mi era venuto da dire. Amoreee miooo, disse, sembri nero come Peppineddu a fine estate. La guardai confuso, lei sgranò gli occhi ridendo, posò le mani sulla caffettiera fumante e chiese che sogni avessi fatto per essermi svegliato così, quella mattina. E’ importante che Giulia vada, disse. Non capii. Versò una tazza di caffè e sorseggiò piano, con le labbra socchiuse, come per sentirne meglio il sapore. Facciamo colazione?

 

Non avevo per niente fame ma dissi di si ugualmente, per sedermi un po’ con lei fuori e chiacchierare di questa o quella cosa, circondato dal rumore del mare in lontananza, del trattore guidato da mia padre giù nel nostro meraviglioso pezzo di terra, della natura che aveva sempre avuto il vizio di svegliarsi un attimo prima di noi, nonostante fossimo in piedi dall’alba ogni santo giorno. Anna apparecchiò la tavola fuori con del latte, dei grissini, burro e miele. Finsi di fumare con un grissino, Le reca fastidio il fumo Signora? Chiesi serio, Ma certo che no, il fumo la rende molto attraente Signor Francesco, rispose lei e scoppiò in una risata da farmi tremare il cuore di gioia. Mio padre alzò la mano dal trattore per salutarci. Nuvole di rondini passarono il cielo, vidi del fuoco dietro la collina. Lo stanno già spegnendo, disse Anna, ci sono i Canader da questa mattina che vanno e vengono, vanno e vengono, è una splendida giornata, non credi? Feci di si con la testa assaporando con le dita un po’ di miele. Le mattine hanno sempre quella sensazione dolce e fresca della novità, come se tutto, senza eccezione, dovesse essere perfetto. Respirai a fondo, i pantaloni del pigiama a righe mi coprivano quasi completamente entrambi i piedi. Vai a prepararti, svelto, mi disse mentre invincibile scrutavo l’orizzonte. Svuotai la cartella dei quaderni e ci infilai mele biscotti secchi e cioccolata. Avevo già deciso.

 

Indossai le braghe corte a righe blu e la maglietta rossa, passando per il corridoio infilai parte della testa in cucina, La saluto Signora, Ossequi rispose Mamma.

 

Le braccia forti di mio padre spostavano tronchi come fossero petali di un fiore appena schiuso, il caldo mi fece inspirare profondamente più volte, le gambe mi si piegavano e la testa mi bruciava come fosse incendiata. Flotte di rondini fluttuavano nel cielo. Pensai e chiesi a Dio di poter vedere ancora disegni come quello. Feci la strada lunga, attraversai la scuola senza neanche guardarla, bussai alla porta di Giulia e prima che potesse fiatare la afferrai ad un braccio e la portai via con me. La Domus de Janas dell’altopiano di Teccas era il nostro posto preferito, la condussi lì e in tutto il tragitto non dicemmo una parola. Entrando, la nostra personale Casa delle Fate, mi parve più profumata di ogni altra volta. Tu oggi non parti, le dissi. Le brillavano gli occhi più del solito, non rispose, Raccontami una storia delle fate, disse soltanto. Era quello che facevamo sempre li dentro, le fate ci suggerivano storie di libertà e noi con quelle ci sentivamo più grandi e più importanti. Raccontai la mia storia con la gola strozzata da un pianto a cui non consentii lacrime. Chiesi, con tutte le preghiere chiesi un tuffo come nei sogni, il fondo di un blu incantevole e respirare l’aria insieme a lei, solo una volta, una soltanto dopo esser volati dai nostri faraglioni.

 

Tornai nelle rocce rosse di Teccas sette anni e mezzo dopo, azzurro il cielo e bianche le nuvole a galla, fiori colorati come quelli che piacevano a lei, la nostra Domus accogliente come accarezzata dalla sua gioia, ora che Giulia è la più bella delle fate. Il canto degli uccelli che ci scorta nel lungo tragitto fino a casa, i colori a sfumare nell’immensità del cielo, il profumo di vita che dalla terra sale fino a stordire di gioia i nostri sensi, tutto questo mi fa essere certo che Giulia è qui con me, un brivido mi attraversa il corpo, ha sorriso: Effetto Janas.

 

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 19:48

L’amore dannato

di

Maria Antonietta Azara

 

“Inue no b'at remediu no balet matana”così lo aveva liquidato don Don Carmine quando Fabio Trunzone andò a chiedergli consiglio su come poter chiedere in sposa Tea Corrasi, la ragazza più bella del paese.“Una questione irrimediabile”l’aveva definita e forse lo era.

Tea era ricca e bella. Aveva tutte le qualità che nessun uomo vivo avrebbe potuto disdegnare. La sua pelle era liscia e olivastra, gli occhi del colore dell’oro, i capelli color castagna e i denti più bianchi della calce, se fosse stato possibile. Teneva i capelli raccolti in una grossa treccia che arrotolava sulla nuca a mogno, fermato con delle forcine dorate ornate con pezzi di corallo rosso. Vestiva il costume classico tradizionale. Tutti in paese erano a conoscenza che la ragazza era stata promessa in sposa a Menelao Deiana un ricco latifondista di Lanusei che si diceva fosse molto più grande di lei. Orfana di madre era sempre accompagnata dalla governante, donna Amalia, persona colta nonché cugina di Don Giuseppe Corrasi, il padre di Tea. Un giorno in chiesa, mentre la zia era intenta a confessarsi, Fabio entrò e vide una figura longilinea e giovanile nella navata destra, vicino alla statua del Sacro Cuore di Gesù. Si precipitò verso questa nella ferma convinzione che fosse sua sorella Angelica, ma quando la ragazza si girò per vedere chi fosse Fabio ebbe un fremito: era la fanciulla più bella che avesse mai visto. Tea gli sorrise con innocenza e un po’ di imbarazzo che colorò le sue gote di un tacito piacere che non era possibile dire a parole e forse neanche con gli occhi.

“Vi avevo erroneamente confuso con un’altra persona. Vogliate perdonare il mio disturbo signora”disse lui con un inchino di commiato.

“Siete perdonato, ma ditemi: chi cercate?”continuò lei con dolcezza.

Ci fu un attimo di silenzio. I due rimasero a guardarsi: lei pregando lui di non andare via così presto, lui ringraziando tacitamente lei di aver prolungato quel momento di felicità che provava al solo guardarla.

“Scusate, sono stata impertinente e indiscreta a porvi una domanda così personale. Se state cercando vostra moglie non è qui: ci siamo solo io e la mia governante Amalia”riprese lei maliziosamente.

“No, non sono sposato signora. Semb…”.

Dovette fermarsi, perché in quel momento si sentì la voce di Don Carmine pronunciare:“Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine patris el Filii et Spiritus Sancti”. In quel momento la porta del confessionale in legno si aprì.“Andate ve ne prego”disse Tea.

Uscì e corse, corse, corse fino a quando il cuore non smise di scoppiargli nel petto e il respiro non tornò ad essere regolare. Chi era quella creatura meravigliosa che lo aveva stregato al primo sguardo? Passarono alcuni mesi ma Fabio non era riuscito a sapere niente: il problema consisteva nel fatto che si vergognava a parlarne con gli altri, a descriverla, soprattutto perché i suoi occhi e le sue parole non avrebbero lasciato dubbi: lui ne era innamorato.

Arrivò la sera della vigilia di Natale e tutto il paese si riunì in Chiesa per la messa di mezzanotte. Uomini e donne con i loro abiti migliori erano in preghiera per dare il benvenuto a Gesù bambino che di lì a pochi minuti sarebbe venuto al mondo.“Deus ti salvet Maria”veniva intonato dal coro e dai presenti, quando tra le prime file, vicino alla moglie del sindaco Fabio intravide una figura conosciuta. Cantava con in mano il rosario di madreperla e sopra il capo portava il velo muliebre bianco ricco di pizzo. Non riusciva a scorgere altro, se non la testa e le mani, ma questo gli bastò per sentirsi felice e capire che era la figlia di Don Corrasi.

Ora sapeva il suo cognome, ma quello che non sapeva era come domandarla in moglie dal momento che lui era un pescatore e lei la figlia di un signore per giunta promessa in sposa ad un uomo molto ricco. Fu così che senza dire niente in casa il giovane si recò dal parroco, Don Carmine, uomo di origini modeste ma anima benigna, per chiedere consiglio a lui in confessione.

“Padre, mi sono innamorato”

“Bene figliolo. Di chi?”

“Di donna buona e onesta. Tea è il suo nome”continuò lui.

“La bontà e l’onestà di una donna sono caratteristiche essenziali per una buona moglie e madre. Lei ricambia? Hai parlato con il padre della giovine? Le cose vanno fatte con giudizio figliolo. Ricorda l’onore della ragazza”.

“Padre il suo onore è intatto ma è il padre che mi spaventa. Ho ragione di credere che i miei sentimenti siano corrisposti”disse il ragazzo.

“Chiedi a tua mamma di accompagnarti e vedrai che tra vetusti sapranno ragionare e giungere ad una decisione giusta per voi giovani. Ma ditemi: la ragazza di che paese è?”

“Di qui. E’ Donna Tea Corrasi la ragazza che mi fa battere il cuore”

“Battere il cuore. Battere il cuore. Ragazzo ti sarai sbagliato. Alla vostra età quello che sembra amore è soltanto infatuazione. Tornate a casa e lasciate passare un po’ di tempo e vedrete che una buona moglie la troverete”lo congedò il prete.

“Ma voi non capite: è lei che voglio come mia sposa. Nessun’altra.”

“Andate vi dico. Ad ognuno il suo. I ricchi con i ricchi e i poveri con i poveri: è una legge antica e vige da sempre. Non cadete nella rete della superbia: è un peccato, sapete?”

Il ragazzo uscì dalla chiesa con il cuore spezzato e con il viso stravolto dal pianto. Sino ad allora, nei vent’anni della sua vita non era mai stato innamorato: rideva al pensiero dell’amore. Eppure quella forza misteriosa, quel potere che ti cambia, ti gira e ti rigira come una clessidra era capitato anche a lui. Camminava per le vie del paese a testa bassa quando guardò il cielo e si rese conto che di lì a poco sarebbe iniziato a piovere. Le nuvole si stagliavano sul cielo grigie e scure e minacciavano temporale mentre i lampi squarciavano il cielo. Fu in quel momento che vide una collina: quella che gli anziani chiamavano “Perda ‘e Liana”. C’era un antico detto che si trasmetteva di padre in figlio: “A sa Perda ‘e Liana, su hi heres di dana”.“Provare non costa niente”pensò, e si diresse verso l’altura in direzione del tacco calcareo che si diceva fosse la porta dell’inferno. Iniziò a piovere ma Fabio rimase lì ad attendere la mezzanotte. Quando il campanile della chiesa scoccò per la dodicesima volta la campana, il giovane si trovò attorniato da una processione di quelli che all’apparenza sembravano uomini. Il loro movimento provocava un rumore strano: di ferraglia, monete che si toccavano tra loro. Passarono accanto a Fabio e fu lì che si rese conto che quelli che credeva essere contadini in realtà erano qualcosa di mostruoso. Esseri deformati, spaventosi, terrificanti dalle risate inquietanti. Dalla testa si scorgevano delle corna e dei denti canini molto pronunciati. Il più grosso gli si avvicinò e continuando una danza ancestrale che gli altri seguivano domandò:“Cosa ci fai qui? Ci stai disturbando, sai?”

“Voglio diventare ricco.”

“Lo sarai mio coraggioso amico ma il pegno che dovrai pagare sarà molto alto: io voglio la tua anima” disse Mefistofele.

“L’avrai” rispose il ragazzo.

“Bene, torna a casa tua e domani ti risveglierai con una ricchezza che nessuno del paese avrà mai visto. Ora vai e non raccontare niente a nessuno” disse il demonio.

Il ragazzo obbedì e la mattina dopo si vestì elegante ed uscì. Arrivato al palazzo dei Corrasi chiese di essere ricevuto da don Giuseppe e chiese in moglie Tea dicendo di poterle garantire ogni tipo di ricchezza e benessere, ma l’uomo lo guardò male e la risposta non fu altrettanto diversa.“Tu, chiedi in sposa mia figlia? Non sai che è già promessa ad un signore nobile? Noi siamo discendenti di un’antica famiglia e tu giovanotto no. Non lascerò mia figlia nelle mani di uno come te, la mia risposta è no”.

Da quel momento in poi di Fabio non si seppe più niente. Si dice che quella mattina stessa si buttò dalla collina ma il suo corpo non fu mai ritrovato. Un ragazzo che salì a “Sa Perda ‘e Liana” giurò di averlo visto insieme al diavolo in una notte di luna piena ma nessuno gli credette. Verità o no questo lo lascio decidere a voi.

 

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 19:45

Le Incursioni Saracene

di

Albino lepori

 

Per secoli le coste sarde furono toccate dai pirati: prima dagli Arabi, e poi dal Cinquecento, dai Barbareschi (provenienti dalla Barberia, cioè dalla costa mediterranea dell'Africa, da Tripoli sino verso Gibilterra) posti sotto la dominazione turca, una delle cui industrie era la pirateria. Quasi ogni anno, alla bella stagione, da qualche parte dell'isola si spargeva la paura. E, ogni tanto, dalle torri costiere risuonava il grido: «Is Morus, is Morus!».

Le torri erano ben munite e lungo le coste incrociava qualche volta una nave da guerra. Tuttavia, la difesa costiera non fu sufficiente a impedire che le incursioni saracene si ripetessero, tanto che nel 1787 il viceré chiese al bey di Algeri la restituzione dei Sardi catturati nell’isola negli anni immediatamente precedenti e tenuti come schiavi nel suo territorio. Fra i liberati figurano anche sei ogliastrini. Ai primi di giugno del 1806, sbarcarono sulla costa di Tertenia ottocento pirati, trasportati da trenta bastimenti, che dopo aver saccheggiato i campi e rapito due uomini e due donne ed essere penetrati per dieci miglia nell’interno, si reimbarcarono e fecero rotta verso il Nord. Il giorno seguente, nella marina di Gairo fecero schiavi sei Gairesi e ne uccisero uno. A Tortolì e Bari Sardo i Barbareschi catturarono un centinaio fra uomini e donne che trasportarono sui loro legni per venderli come schiavi.

Peraltro, anche nelle nostre città è stato praticato il commercio degli schiavi, sino ai primi dell’Ottocento. All’attività dei pirati barbareschi di cui erano vittime i Cristiani, si contrapponevano le incursioni dei pirati cristiani per catturare schiavi mussulmani. Lo stesso Stato Pontificio e gli Ordini religiosi dei Cavalieri di Malta e di Santo Stefano praticavano la guerra di corsa a fini religiosi e difensivi ma anche a scopo di lucro. E, spesso, si dimostravano più feroci degli stessi Mussulmani.

Di norma, la sorte destinata agli schiavi era molto triste. Considerati alla stregua di una qualsiasi merce del bottino conquistato durante le razzie, essi erano spartiti tra quanti avevano partecipato alla cattura. I più fortunati erano coloro che si convertivano all’islamismo. Il numero dei rinnegati dovette essere considerevole: la maggior parte di essi praticava – spesso ai danni degli stessi paesi d’origine – la guerra di corsa, che permetteva di accumulare ingenti fortune. I più famigerati corsari barbareschi erano, frequentemente, Cristiani rinnegati e ascesi al comando di squadre navali o alle più alte cariche civili e militari. L’esempio di Hassan Aga, il pastorello sardo catturato da Kheyr-Esl-Din, detto Barbarossa, divenuto terzo re di Algeri e ritenuto dai Mussulmani l’artefice della vittoria su Carlo V, che aveva assediato la città nel 1541, è indicativo. Anche per le rinnegate esistevano concrete possibilità d’emergere dai ranghi più bassi della schiavitù. Le vicende di questi schiavi promossi dal destino non vanno confuse con le numerose leggende fiorite nei centri della nostra isola.

Secondo una di queste memorie, una bambina di Eltili, paese prossimo a Baunei, fu rapita dai Saraceni lungo la spiaggia tra Lotzorai e Girasole, e poi venduta al bey di Tunisi. Convertitasi all'islamismo, le fu imposto il nome di Meriem Bentalì. Il suo ritorno nell'isola sarebbe avvenuto quarant'anni più tardi, in seguito ad uno scambio di schiavi. Lei era anche l'unica superstite di Eltili, forse falcidiato e abbandonato in seguito ad una pestilenza. Poiché era divenuta padrona assoluta dei beni del suo villaggio, offrì tutto a Baunei in cambio di ospitalità. Le fu assegnato un terreno vasto più di dieci ettari, cinque capre, due maiali e una capanna costruita nei pressi di una sorgente, a monte Colcau. La donna s’intratteneva tutti i giorni, per cinque volte, nell'uscio della capanna facendo profondi inchini, accompagnati ad alta voce con le parole che aveva appreso in Africa: La ’ilaha ’Illa-llah Muhammadun Rasulu-llah - Non c'è dio ma Dio, Maometto è il messaggero di Dio. Tutta agghindata, raccontava a quelli di Baunei, in una lingua per metà sarda e l’altra incomprensibile, miti e leggende delle persone e dei luoghi conosciuti fuori dall'isola; di là da quel mare che iniziava a Santa Maria e che non sapevano se e dove finisse. Maria Eltili, così era chiamata, conquistò il rispetto e la fiducia di quei paesani che la considerarono subito una maga alla quale rivolgersi, perché invocasse l'intervento del grande spirito che aveva conosciuto nell’esilio.

Un’altra leggenda narra di una contadinella bariese, anch’essa fatta schiava dai Mori. Donata al bey di Tunisi, diventò la preferita del suo harem. Quel sovrano s'invaghì tanto della bella ogliastrina, che da regina dell'harem la innalzò a signora del suo cuore. La contadinella ottenne la più cieca fiducia del suo signore, e ne divenne la moglie. Ebbero un figlioletto, che fu designato dal padre a succedergli nella Reggenza. Un bel giorno, però, approda nella rada di Tunisi un vascello francese. La giovane domanda, come una grazia, il permesso di visitare la nave. Il bey soddisfa il suo desiderio, ma intuisce qualche tranello e tiene con sé il loro pargolo, lasciandole intendere che quello sarebbe stato il pegno per il suo ritorno. Appena lei sale sulla nave, questa si appresta alla partenza. Il potente consorte, capito l'inganno e mostrando e tenendo in alto con le braccia il bambino, minaccia, depreca e la implora che rinunci al suo proposito. Il cuore della donna è di pietra. Essa è ormai indifferente, insensibile al pianto del figlio e alle invocazioni del marito: rapita dall’incolmabile nostalgia per la sua terra lontana. La nave è ormai a vele spiegate, quando il bey, fuor di senno dal dolore e dall'ira, dopo di un'ultima disperata supplica alla donna amata, all'insensibile madre che se ne fugge, cieco di furore, squarta barbaramente il pargoletto, buttandone i brandelli tra i flutti del mare.

Secondo una tradizione del posto, alcuni abitanti di Tertenia furono fatti prigionieri, nel corso di una battaglia con i pirati. Fra loro era anche una donna di particolare bellezza, Maria Pitzettu, che fu tradotta e rinchiusa nelle carceri di Algeri. Tuttavia, l’avvenenza della giovane, unita alle altre sue particolari doti, colpì il sovrano dei Mori che la volle a Corte e le affidò l’educazione del figlio, erede al trono. Quando molti Cristiani poterono, essere riscattati e rimpatriati, ciò avvenne anche per Maria e i suoi compaesani. Il principe moro, intanto, diventato adulto e salito al trono, decise di contrarre nozze. Nei preparativi, egli non dimenticò la sua nutrice che volle ad Algeri. Cosicché, la bella Maria fu accolta festosamente nel palazzo reale e poté assistere alle fastose nozze del giovane sovrano. Terminati i festeggiamenti, il re la supplicò di restare, promettendole una vita felice e ogni ricchezza; ma la donna, attratta dal suo paese natio, ricusò la gentile offerta e fece ritorno in Patria: poté, però, beneficiare degli abbondanti doni ricevuti, per tutta la sua lunga esistenza.

Molti altri episodi delle incursioni moresche sui lidi d'Ogliastra, sono avvolti nella leggenda. Così è per Sa Nai Ammarmurada, cioè la nave marmorizzata, impietrita. Questa fu la denominazione attribuita dalla fantasia popolare a uno scoglio liscio, brullo, scuro, fatto proprio a guisa di nave disalberata, che si troverebbe nella Marina di Tortolì. I Tortoliesi credevano che si trattasse di una nave saracena miracolosamente impietrita, per aver depredato una barca cristiana che, tra gli altri oggetti, aveva a bordo una cassa con dentro una statua della Madonna. I corsari buttarono a mare, in segno di profondo disprezzo, il prezioso simulacro; ma nel medesimo istante la loro nave restò immobile e impietrita: trasformata in uno scoglio inutile, condannato a spezzare i flutti del mare per l'eternità!

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 19:43

Il Dio Toro e la Dea Madre

di

Albino Lepori

 

Gli antichi Sardi veneravano il Dio Toro assieme alla Dea Madre.

La pianta della tomba dei giganti richiama immediatamente una testa di bovino le cui corna sono costituite da un muro a semicerchio, l'esedra, a lato dell'ingresso; e il muso dal corpo della tomba. Secondo un’altra opinione abbastanza diffusa, l’esedra e più in generale la planimetria delle tombe dei giganti volevano rappresentare il ventre materno, con un significato riconducibile alla rigenerazione della vita. La pianta della tomba dei giganti rappresenterebbe la speranza della sopravvivenza dopo la morte. La falce della luna richiama le corna del toro: correlate alla Grande Madre, intesa come massima divinità della fertilità, genitrice e nutrice.

Peraltro, anche l’appellativo di “Medusa”, attribuito al castello di Lotzorai, potrebbe fare riferimento alla Dea madre. E ciò, potrebbe svelare il mito secondo cui il castello sarebbe stato innalzato o almeno abitato da una principessa di Navarra, che avrebbe anche fatto edificare la chiesetta di Santa Maria Navarrese. Sebbene, secondo la tradizione di Lotzorai, sia stata una principessa di nome Locana a far costruire il castello, lasciandovi serve e ancelle che dopo la sua partenza diedero origine al paese. A questo deve anche riferirsi la leggenda della mitica fondazione di Tortolì e Lotzorai, rispettivamente da parte del troiano Ilio e della cugina Leucasia. Quest’ultima avrebbe fondato la città di Leucasia nel luogo detto Tancau, presso Lotzorai: che secondo la leggenda, nei tempi antichi, si chiamava Locorai, nome derivato dalla sua principessa fondatrice Leucasia.

Medusa è un nome legato a varie località. Così è per il castello di Samugheo; e se ne parla anche nel territorio di Orune dove, secondo un'antica memoria, si troverebbe la sua tomba. I miti che circolavano in Sardegna, intorno a Medusa, non parlavano di teste crinite di serpenti, ma di colei che dominava, Medéusa, la Signora, la Protettrice: titolo che si dava a Demetra, appunto, la Dea madre, per i Greci. La Cerere della mitologia romana: una divinità materna della terra e della fertilità, nume tutelare dei raccolti, ma anche dea della nascita, poiché tutti i fiori, la frutta e gli esseri viventi erano ritenuti suoi doni. In Sardegna, la Dea madre doveva essere assimilata all’antichissima dea italica Diana, signora delle selve e delle belve, custode di fonti e torrenti, dea della Natura e dell'agricoltura. Come tutte le Grandi Madri primigenie, aveva tre volti: nascita, crescita e morte. Nella sua qualità di Dea della nascita, aiutava le gestanti a partorire; così come faceva fiorire la vegetazione in primavera. Solo più tardi, fu assimilata ad Artemide che in sardo diventa Jana e rappresenta la luna.

Secondo la tradizione, nelle tumbas de gigantis venivano sepolti dei giganti. Le domus de janas, chiamate erroneamente “case delle fate”, in realtà non erano abitazioni di esseri piccolissimi; e le tumbas de gigantis non erano tombe per “esseri giganteschi”. Si trattava semplicemente di tumulazioni collettive realizzate con due sistemi architettonici differenti e in diverse epoche. I giganti - dice il mito - erano nemici delle janas. Quelli erano più forti, ma queste erano armate dell'intelligenza che le faceva uscire vittoriose da ogni battaglia.

Le leggende sulle janas sono tantissime anche in Ogliastra. L’opinione più comune vuole che esse siano piccolissime, vestano minuti vestiti e vivano in case altrettanto piccole. A Tortolì, le janas s'immaginano come streghe o maghe; e si aggiunge che avevano delle mammelle lunghissime che gettavano dietro le spalle, sia per allattare i bambini, che portavano dentro a delle ceste legate sulla schiena, sia perché non toccassero terra quando lavoravano; ed erano munite di lunghe unghie d'acciaio con le quali scavavano le loro dimore. Diverse leggende parlano di janas molto ricche, ornate di gioielli, che durante certe feste notturne scendevano dai monti, ove avevano la loro dimora, e si mischiavano nella danza agli abitanti dei paesi. Oppure, che alla nascita di un bimbo, si avvicinassero di notte alla sua culla decretandone la buona o la cattiva sorte. Altre leggende, riferiscono che le loro ricchezze consistevano in casse piene di fazzoletti ricamati con fili d'oro, in pezzi di broccato e altre stoffe preziose. Esse possedevano il dono della profezia e spesso il destino degli uomini era determinato dal loro volere.

                È molto diffuso anche il toponimo Sa Dom’e s'Orku, usato per indicare sia tombe dei giganti, sia domus de janas, e anche per i menhir e i nuraghi. L’Orco nella mitologia romana è il sovrano del Regno degli Inferi e divoratore di uomini insieme al suo mostruoso cane Cerbero. Per altri, Orku sarebbe anche sinonimo di “gigante”, corruzione in senso simbolico di Ercole. Riferita agli uomini insigni della famiglia, denominati anche Is Mannus: degni del culto animistico dell'apoteosi come eroi. Come gli dèi Mani dei Latini, che erano gli spiriti benigni degli antenati, onorati come divinità.

I menhir erano l'espressione visiva delle divinità alle quali si rendeva omaggio, con preghiere e doni, per impetrare guarigioni e grazie; ma anche per propiziare la fertilità della terra. Nell’adorazione degli esseri supremi, gli idoli di pietra che proteggevano il sepolcro megalitico, era inclusa anche la venerazione delle anime dei trapassati custoditi nella grande tomba comune. Le pietre fitte sono anche conosciute con il nome di betile, che in punico significa “Casa del Dio”.

San Gregorio Magno, nella sua lettera diretta a Ospitone, duce dei Barbaricini, fa conoscere al mondo che i Sardi della Barbagia adoravano le pietre: «... mentre tutti i barbaricini vivono come insensati animali e non conoscono il vero Dio, ma adorano le pietre e il legno, tu solo adori il vero Dio». Egli, però, nel dileggiare i Barbaricini dimenticava che a Roma, Caput mundi, dal tempio di Giove Feretrio si prendeva la Lapis silex, la pietra sacra che i feciali portavano con sé recandosi a stringere trattati, e per Jovem Lapidem si giurava. Alle pietre termini, usate per delimitare i confini di proprietà, si rendeva culto nelle Terminalia: la festa che i Romani, in onore del dio Termine, celebravano il 23 febbraio.

... E i confini sono sacri.

In località Nurtài, tra Tortolì e Barì, sorge il menhir Perda Longa. Si racconta di un'anziana che praticava la magia, la quale consigliò a una donna sterile di recarsi presso quella Pietra e, senza farsi vedere, sfregare il ventre nudo sulla colonna, recitando una preghiera tra il sacro e il profano. L'idea implicita era che certi sassi possano fecondare le donne sterili, sia grazie allo spirito dell'antenato che vi ha sede, sia in virtù della loro forma, o dell’origine. Non va, comunque, dimenticato che tra le pratiche della religiosità cristiana legate alla fertilità, vi è quella che consiglia di appoggiarsi, o addirittura sdraiarsi, sulla statua di un santo, considerato taumaturgo e capace di favorire la gravidanza.

I monoliti di Nurtài, erano tre: uno eretto e due stesi a terra. Nella consuetudine bariese, sarebbero stati i corpi pietrificati di tre sorelle. Avendo promesso di portare tre mazzi di fiori a san Salvatore, alla “Monserrata” e a san Gerolamo li raccolsero; ma mentre si recavano in chiesa, a metà strada, affaticate, cambiarono idea e decisero di tornare indietro. Dio, irato, le fulminò tramutandole in pietra. Altra leggenda, tortoliese, vuole che Perda Longa, stesa a terra, portasse incisa la scritta: «Chi mi solleverà troverà una bella sorpresa!». La curiosità e il miraggio di trovarvi un tesoro, unu scusorgiu, non tardarono a invogliare qualcuno a sollevarla mettendola in posizione eretta... E il tesoro? Sul rovescio della pietra stava incisa la scritta: Immoi istu mellusu! – ora, sto più comoda!

Quei monoliti segnano anche il confine dei territori di Tortolì e Barì.                                           

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 19:40

Gli antichi iliesi

di

Albino Lepori

 

Secondo una leggenda riferita da Aristotele in Sardegna vigeva il costume di dormire presso gli eroi; vale a dire presso le dimore degli eroi, che sono le tombe. Questi eroi sarebbero i figli di Ercole e delle Tespiadi, che guidati da Iolao, intendevano colonizzare la Sardegna. Essi da morti avrebbero conservato intatti i loro corpi, così da avere sembianza non di cadaveri, ma di dormienti.

Sotto la veste greca, s’intravede in questa leggenda una credenza sarda genuina. Gli eroi che i Greci tradussero in linguaggio mitico ellenico, erano eroi nel senso di avi eroizzati: ed erano sardi, così, come il rito dell'incubazione presso le loro tombe. Dal rito, dall'usanza, dalla pratica religiosa sorge qui, come in molti altri casi, il mito.

Iolao (Ιόλαος), secondo la tradizione risalente a Timeo, riferita da Diodoro, è la figura eroica dell’occupazione greca della Sardegna. Narra il mito che Ercole, essendo ancor fanciullo, ebbe dalle figlie di Tespio, re di Tespie, cinquanta figli; dei quali quaranta secondo il comando dell'oracolo, egli inviò in Sardegna, accompagnati dal suo amico ed auriga Iolao, affinché ivi venisse da loro fondata una colonia.

Iolao, dunque, presi con sé i Tespiadi e altri molti, che vollero prender parte all'impresa, fece vela verso quest'isola e vinti in battaglia gli indigeni, prese, per sé e per i suoi, le più belle e le più fertili regioni che ancora al tempo di Diodoro si chiamavano Iolee. Egli attese a piantarvi alberi fruttiferi, fece venire dalla Sicilia Dedalo, perché gli fabbricasse edifici e sacri e pubblici. Le genti che avevano seguito Iolao vollero, per onorarlo, esser chiamate Iolaesi o Iliesi, anziché Tespiesi. Quando morì, la sua tomba divenne un santuario: sepulchro eius templum addiderunt. E continuarono per molte generazioni a considerarlo come il loro dio eponimo, chiamandolo Iolao padre. Ciò, dimostrerebbe come tra Iolao e gli Iolaesi (ovvero, Iliesi) esista la stessa relazione onomastica che intercede fra Sardo (Σάρδος) e i Sardi e la Sardegna.

Peraltro, i Greci non riuscirono, mai, a fondare una città in Sardegna. Cosicché, i loro vari tentativi d’impadronirsi dell’isola rimasero soltanto nella tradizione e furono, per così dire, involuti in questa mitica leggenda di Iolao e dei Tespiadi. Ai Romani si attribuisce l’elaborazione di un differente racconto, acquisito dalla tradizione, non solo orale, delle nostre genti.

Secondo la leggenda tramandata da Pausania e Silio italico, un gruppo di Iliesi fuggiti dall'ormai distrutta Ilion (Troia) furono sbattuti ai sardi lidi dalla tempesta che, salpando dalla Sicilia, li colse nel Tirreno e li strappò dalla flotta di Enea, quando fatto profugo dalla sua città incendiata dai Greci, vagava in cerca di nuovi destini. Essi sarebbero approdati sulle coste ogliastrine ove si sarebbero stabiliti. Gli antichi Ogliastrini hanno sempre creduto d’essere di razza troiana; e perciò, avendo fatto guerra ai Romani, essi si vantavano di non averne paura, perché essendo anche loro di stirpe troiana, avevano abbastanza coraggio di far fronte alle loro agguerrite falangi. Una successiva ondata migratoria di genti africane li avrebbe costretti a trovare rifugio nella zona montuosa e impervia dell'interno.

Per altri studiosi, invece, gli Iliesi sono il popolo indigeno più antico della Sardegna. Venuto dal Nord dell'Africa, possedeva le parti migliori dell'isola e costruì le tombe dei giganti e i nuraghi. Secondo lo storico Ettore Pais, a torto Pausania li distingue dagli Iolaesi, mentre senza minimo dubbio erano lo stesso popolo che onorava il suo eroe eponimo Iolao. Piuttosto, Iolao e gli Iliesi si distinguono dai Sardi e dal Sardus Pater: erano due divinità eponime, due eroi divinizzati, ma essi erano pure gli dei di due popoli se non diversi in origine, certo distinti nel tempo.

Con la conquista della Sardegna da parte dei Cartaginesi, mal sopportandone la prepotenza, gli Iliesi si associarono ai Balari per ostacolarne la penetrazione. E si ritrassero da parte dei loro territori, concentrandosi nella zona montagnosa che circonda il “tacco” calcareo che da loro ha preso il nome, Perda ’e Liana, ancora nel XIX secolo chiamato Perda Iliana (Pietra degli Iliesi).

Perda ’e Liana con i suoi 1.293 metri sul livello del mare costituisce il "tacco" calcareo più emergente, oltre ad essere uno dei più caratteristici dell'isola. È visibile da un intorno molto vasto, dà l'impronta alla regione e costituisce per la Sardegna centro-orientale un punto di riferimento pressoché costante. Cosicché, l'Ogliastra montagnosa e allo stesso tempo protesa sul mare, può per così dire, fregiarsi di due singolari emblemi: la Guglia (Aguglia) che si riflette nel mare azzurro, e Perda ’e Liana, solitario bastione montano.

La rocca è visibile anche da S’Arcu de Corr’e Bòi, un totem lunare che si contrappone al simulacro fallico, della “verticale” Iliana: nel classico binomio “Dea fecondata – dal – Dio fecondante”. I nostri padri, che disseminarono di menhir l’intera Sardegna, avevano nella rupe Iliana l’unico vero Grande Totem naturale, in dialogo con la Falce Lunata, divisi-uniti da vallate ricche d’acque perenni. È tradizione che gli abitanti della Barbagia e dell'Ogliastra vi convenissero per porre termine ai loro dissidi e alle loro contese: era, quindi, prescelto come altare di pace e di concordia. Nella piana intorno alle sue pendici, si riunivano anche i capi dei vari villaggi per discutere e assumere una comune posizione sui più importanti problemi, in particolare quelli riguardanti le linee di condotta della difesa, nei confronti degli invasori.

Cartagine si era resa padrona delle coste, delle pianure e delle fertili vallate. Agli indigeni rimasero i paesi montuosi e del centro: la Gallura ai Corsi; il territorio di Nuoro, le Barbagie e l'Ogliastra, ai Balari e agli Iliesi.

Anche dopo l’occupazione romana, gli indigeni continuarono le scorrerie, tanto che Roma dovette inviare più spedizioni al comando di valenti generali. Che gli Iliesi fossero dei forti combattenti lo confermano gli storici: Plinio il Vecchio che li annovera tra i celeberrimi populorum e Livio che li ricorda come avversari ostinati e ostili alla supremazia di Roma. È probabile che con l’invasione dei Vandali, essi riprendessero in pieno la loro vita indipendente.

Durante il periodo bizantino, i Barbaricini, capeggiati da Ospitone, furono ostacolati nelle loro incursioni dalle truppe imperiali al comando del magister militum Zabarda. Interessato alla questione, papa Gregorio Magno, che era preoccupato per l'idolatria ancora diffusa nell'interno della Sardegna, scrisse sia a Zabarda, sia a Ospitone, già cristiano, invitandoli all'accordo e sollecitando quest'ultimo a curare la conversione della sua gente.

Gregorio a Ospitone, capo dei Barbaricini. Poiché nessuno del tuo popolo è cristiano, anche da ciò io argomento quanto tu sia superiore agli altri, trovandoti fra essi il solo cristiano. Mentre, infatti, tutti i Barbaricini vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, ma adorano legni e pietre, tu, per il solo fatto che veneri il vero Dio, hai dimostrato quanto sei superiore a tutti... al servizio di Cristo, in cui tu credi, dovrai impegnare la tua posizione di preminenza, conducendo a Lui quanti potrai, facendoli battezzare e ammonendoli a prediligere la vita eterna.

L'invito fu accolto da entrambi e nel 594 fu stipulata la pace; così, sia pur lentamente, i Barbaricini si convertirono al Cristianesimo.

Il Tirso servì di confine ai Bizantini per scacciare i ribelli indigeni. A tal fine, fu fortificato Forum Traiani, per la sua eccellente posizione. I Barbaricini orientali, discendenti degli antichi Iliesi, erano, invece, attestati a Nord del Flumendosa. Proprio dove sorgerà l’antica Diocesi Barbariensis, con san Giorgio vescovo. Poi detta: d’Ogliastra.

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 19:35

Il destino della felicità

di

Roberto Alba

 

Nella fucina di Gairo – un isolato villaggio aggrappato al monte Trunconi, nella valle della terra che scorre – un pezzo di metallo, sopra un’incudine, schizzava scie di stelle roventi; come polvere d’oro, brillavano verso le travi di legno del soffitto e sul grembiule di Giovanni. Ardevano per pochi istanti per poi spegnersi e cadere senza vita. I colpi del pesante martello scandivano il tempo circolare di quel mondo antico, forgiando il destino inesorabile di quel corpo incandescente: un ferro di cavallo per la vecchia giumenta de sa coga Mariuccia, fattucchiera per le anime dei vivi e per quelle dei quasi morti, i babbaieca.

Tenendo strette le pinze, Giovanni immerse il ferro lavorato in una tinozza d’acqua. Una densa nube di vapore si sprigionò con uno stridio improvviso. Il giovane indietreggiò, attese qualche istante e sollevò lo sguardo verso l’ingresso della bottega. Il fratello Peppino gli stava accanto: spingeva con una leva il soffione per ravvivare le braci della forgia. Anche lui si bloccò e guardò nella stessa direzione.

Un uomo stava sull’uscio, avvolto in un mantello nero pece. Calvo, con una barbetta fine e pungente, teneva fra i palmi il pomo in madreperla di un bastone prezioso, intarsiato da disegni simili a lingue di fuoco, che ondeggiava lento davanti a sé. Con un sorriso stentato, che di benevolo aveva ben poco, pensò Giovanni, si rivolse a loro.

«Siete i figli di Francesco Lorrai?» La voce si insinuò cupa tra il lieve crepitare dei carboni ardenti e i loro respiri pieni di fatica.

«Sì, per servirvi» disse Giovanni aggiungendo un breve inchino del capo.

Peppino riprese a spingere forte il soffione, mentre Giovanni lasciò scivolare le pinze nella tinozza avvicinandosi all’uomo. «Cosa posso fare per vostra signoria?»

L’uomo osservò i due fratelli: Giovanni possente nell’aspetto con i bicipiti ben scolpiti poteva incutere non poca paura; Peppino, invece, mingherlino con due occhi spiritati e un ciuffo di capelli in testa non poteva che essere l’ombra del fratello. L’uomo fece qualche passo avanti. «Sono qui per avvertirvi di quanto deciso dal consiglio. Su Maistru Babbai vi invita a far presto. Urge sia compiuta la promessa!»

Giovanni si accigliò. Fece passare qualche istante. «E quando sarebbe da compiere questa promessa?»

«Oggi! Al sorgere della luna nuova. Troppo tempo avete atteso.»

Giovanni si incupì e l’uomo, allontanandosi verso l’uscio, come se avesse fretta di abbandonare quel luogo dall’odore acre del fuoco dell’inferno, aggiunse: «Spero non attendiate altro tempo, o la sventura si abbatterà su di voi e i vostri cari».

Si dileguò sotto un cielo violaceo e un sole rosso che calava oltre i monti, quasi fossero sicuri presagi di sventura.

«Chi era, che voleva?» chiese Peppino interrompendo il movimento ritmato del soffione.

«Su Maistru Babbai» rispose il fratello ancora con lo sguardo verso il nulla oltre la strada.

«Ah.» Non era sorpreso da questa notizia. Si asciugò la fronte con uno straccio e si avvicinò a lui. «Mi sembrava un esattore, di quelli di Pisa… Che ci hai detto del babbo?»

«Niente!» fece Giovanni con uno sguardo severo, «non dovevo dirgli nulla a quello lì!»

«Ma, lo dobbiamo buttare giù da una rupe?»

«Sì, da sa Babbaieca. Così è la promessa, non possiamo mancare, o la scalogna si abbatterà sulla nostra casa!»

«Scalogna è se ci muore babbo» disse Peppino lasciandosi cadere seduto su di uno sgabello accanto alla forgia, «proprio ora che gli affari ci giravano bene. Senza di lui non avremmo mai fatto accordi con la famiglia Deppau del villaggio vicino, ci pensi a questo? Babbo conosce tutti, sa tutto, ha esperienza…»

«Ormai babbo è solo un peso, lo sai bene anche tu quanto ci costa mantenerlo.»

«Ci costa il tempo che ha dedicato a noi per tutta la sua vita, ed è comunque poco» fece Peppino.

***

Dopo il tramonto, ormai notte fonda, mentre la luna sorgeva a sud e iniziava a rischiarare la valle con una luce che fluttuava impalpabile sopra una bruma sottile, i fratelli Lorrai, tenendo sottobraccio il vecchio genitore, s’incamminarono in direzione dell’uscita del paese verso il ponte del Rio Pardu. Dagli scurini semichiusi, luci tremolanti li avvisavano degli sguardi curiosi dei compaesani che seguivano i loro passi verso il fato promesso.

Ogni famiglia del villaggio sacrificava i propri genitori ormai vecchi e considerati inutili: quando giungeva l’ora della “promessa”, sa Coga Mariuccia non negava a nessuno i suoi riti magici per un viaggio sicuro nell’aldilà dietro laute offerte di pollame, prosciutti e… ferri di cavallo.

«Babbo, hai salutato tutti? Hai fatto l’offerta?» chiese Giovanni.

«No, non si saluta nessuno prima di morire e non c’ho niente da offrire, io» borbottò, quasi non volesse che i figli capissero le sue parole.

Stretto in una coperta di lana fin sopra la testa, con due stivali consunti, aggrappato a un bastone di leccio, il vecchio faticava ad avanzare. Sbuffava, alzava lo sguardo al cielo stellato e rassegnato riprendeva il cammino con più coraggio.

«A nonno l’hai spinto tu a sa Babbaieca?» gli chiese Peppino dopo essersi inoltrati lungo un sentiero tortuoso.

Il vecchio si fermò. Poggiò la mano sulla spalla del figlio. «No, si è gettato lui, che c’aveva le palle!» disse e riprese a camminare.

«Ti ci butti tu o ti dobbiamo buttare noi?» domandò Giovanni.

Il vecchio non rispose. Sulla destra scorse il masso su cui il padre sedette cinquant’anni prima affaticato dalla salita. Ricordò. Era la prima volta che i suoi passi ricalcavano quelli lasciati nel silenzio di un giorno doloroso, mai dimenticato.

«Sono stanco, voglio riposare» disse con un filo di voce.

Giovanni e Peppino lo aiutarono a sistemarsi e sedettero accanto a lui.

«Avevo la vostra età quando portai mio padre a sa Babbaieca.» La voce si fece rauca, come se la colpa gli stringesse il collo impiccandolo ai ricordi. «E ho vissuto con il solo pensiero che i miei figli avrebbero fatto la stessa cosa con me» disse tutto d’un fiato.

Peppino chinò il capo e Giovanni serrò gli occhi per impedire alle lacrime di mostrarsi.

Il vecchio si strinse ancor di più la coperta al corpo, tossì e sospirò. «Sono pronto» disse, «ho riposato abbastanza, possiamo andare.»

Fece per tirarsi su, quando la mano di Giovanni lo trattenne per un braccio.

«Babbo, per il momento stai qui seduto con noi. Io e Peppino abbiamo parlato.»

«E di cosa avreste parlato voi due che siete giovani e non ci capite niente della vita?»

«Di te, e poi di noi quando saremo vecchi.»

Rimasero muti per un po’, finché una brezza leggera iniziò a calare giù per il monte fra gli ululati che si percepivano lontani in mezzo alla boscaglia.

Fu allora che Peppino si alzò.

«Babbo, tu non devi morire. Io e Giovanni abbiamo deciso che vivrai con noi fino al tuo ultimo respiro…»

Non terminò la frase che il padre con voce tremante disse: «Come farete figli miei. Su Maistru Babbai se ne accorgerà».

«Ti nascondiamo dentro casa!» esclamò Giovanni. «Adesso ci aspetterai dietro questo masso. Noi torniamo in paese e tutti vedranno che non sei più con noi. Poi, prima dell’alba, veniamo col carretto e ti portiamo a casa sotto le fascine di legna.»

Il vecchio li osservò mentre si allontanavano. Lasciò che scomparissero tra la nebbia per alzarsi e avviarsi verso la fine del sentiero. Così aveva fatto il padre, pensò, quando lo lasciò solo per poi tornare a prenderlo.

Il vecchio si fermò al limite del dirupo. Con la luce pallida della luna, osservò inquieto le acque del fiume scorrere lente sotto di lui. Pensò che se un destino di felicità per i suoi figli doveva esserci non sarebbe mai stato il dolore per la propria morte. Rifletté a lungo sul gesto del padre. Sul fatto che non attese il suo ritorno. Non lo comprese.

Il vecchio Lorrai si voltò e tornò indietro. Sorrise.

La luce dell’alba sarebbe giunta presto.

Venerdì, 30 Novembre 2012 17:35

La leggenda del Monte Ferru

di

Adalberto Ferru

 

Millenni di anni fa la piana di Sarrala, per via dei tanti nuraghi, era un brulicare di vita, un bel territorio abitato da due specie umane, una razza, quella dominante era alta anche sino a due metri e mezzo, l’altra quella subalterna raramente superava il metro e cinquanta.

Tutto era in armonia, le donne della razza che serviva, accudivano in casa , cucinavano,pulivano, mentre gli uomini, cacciavano, pescavano e coltivavano, per il benessere dei loro padroni, sapevano che erano destinati a quei lavori, quindi, lo facevano molto volentieri, in cambio di benevolenza e protezione da parte della razza dominante.

Erano tutti molto religiosi, quello che adoravano in particolar modo era il Dio Babai quello che nell’Olimpo sedeva accanto a Giove Marte e Nettuno, Babai era il Dio protettore dei sardi, ancora oggi in Sardegna si usa chiamare Babai il padre e gli uomini degni di venerazione. I romani in seguito, riconoscendone tali virtù e qualità, chiamarono questo dio “Sardus Pater Babai”.

Saralapis era un paradiso ambito da molte tribù di tutta l’isola, ricco di ogni bene e non facile da conquistare, perché ben protetta sia dai monti che la sovrastano, sia dal mare controllabile dai nuraghi ad ogni momento, poi dalla razza servitrice che venerava i loro padroni.

Alcune tribù provenienti dall’entro terra, con l’intento di assaltare la piana di Saralapis, costeggiando il Monte Arbu e il Monte Tacchixeddu, dove ai loro piedi ora c’è il paese di Tertenia, videro parecchie Janas, cercarono di farsele alleate, risaputo che nutrivano parecchia invidia nei confronti degli abitanti di Saralapis, per via del benessere, noto dappertutto.

Le Janas si introdussero a Saralapis prendendo sembianze di animali sia terresti che volatili e perché l’impresa riuscisse, chiamarono in aiuto maghe, streghe e fattucchiere, si riunirono a Punta sa Canna attorno a un’enorme falò per invocare i dei maligni, ballarono tutta la notte, un ballu tundu sino allo stremo, caddero per terra una dopo l’altra come prese di attacchi di epilessia.

Stava albeggiando, quando la terra inizio a vibrare a intervalli di 10 secondi, erano i dei maligni che si avvicinavano.

Nemmeno i Titani poterono fermare la malvagità del potente Azerot che mandò questi dei maligni con sembianze di sproporzionati gorilla a Saralapis, il primo ad arrivare era stato Neptulon seguito da Therazane, poi Akir con Ragnaros e infine il piccolo ma non meno maligno Azulan.

Per molto tempo seminarono terrore nella piana di Saralapis, non vi era più traccia d’uomo, la razza dei nuragici, sia dominanti che servitori sparì.

Un Dio dell’Olimpo vide dall’alto quella disfatta e subito ne informò il Dio Babai, che corse a vedere, l’ira fu tremenda, afferrò Neptulon e lo scaravento a Punta sa canna dove avvenne il maleficio, il corpo restò immerso nel mare e la testa sugli scogli, pietrificato all’istante, subito più su scaravento, Therazane, il piccolo Azulan lo sbatté sul monte Bruncu Tronciu, Akir e Ragnaros li scaraventò sul monte Serra Pani uno con la faccia rivolta a nord/est, l’altro all’opposto pietrificandoli tutti.

Giove, Marte e Nettuno che diedero la forza al Dio Babai aiutandolo in tale impresa, gli raccomandarono di non lasciare più la zona incustodita.

Si stendeva a riposare tra il Monte Cuile e Perda Manna sinché non si svegliò più, il suo corpo era grande come un monte, il tempo gli solcava il viso e tutto il corpo rendendolo a sua volta di roccia forte come il ferro e la gente guardandolo lo chiamava Monte Babai Ferru

Sono passati millenni e il Dio Babai è sempre li che veglia sulla piana di Sarrala, cambiarono le religioni e non si credete più negli dei, quel monte lo chiamano solo Monte Ferru.

Dalla spiaggia di Foxe Murdegu, la gente ignara dell’accaduto, osserva spesso le montagne vedendo delle sagome ben visibili di enormi gorilla, in direzione di Quirra, subito sopra il livello del mare c’è quella di Neptulon, quella subito più su è Therazane, a metà dell’orizzonte, c’è il piccolo Azulan, mentre più a ovest si intravedono le sagome di Akir e di spalle Ragnaros, poi verso s’Arcu e Sarrala, si scorge nitidamente il volto di quel placido vecchio disteso che dorme, è il Dio Babai MONTE FERRU.

Sarà vero, sarà una leggenda, è certo però, che tutto quello che c’è nel racconto, basta andare a Melisenda e lo vediamo con i nostri occhi. 

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