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Fabio Fanelli

Fabio Fanelli

Venerdì, 07 Dicembre 2012 00:02

Il Topolino di Pasta di Pane

di

Agostina Usai

 

Era un giorno d’autunno, un raggio di sole tiepido batteva sui muri chiari screpolati della casa del Guado. Antonio era già partito accompagnato dai due figli maschi, Angelo e Dino per completare i lavori di un nuova terrazza da adibire ad orto, nel podere di Tucci. Peppina, da buona massaia, si apprestava ad impastare la farina di grano duro per la confezione del pane fiorito, operazione che compiva una volta alla settimana. Con lei erano rimasti gli altri tre figli: Anna Maria, la maggiore delle femmine di tredici anni appena compiuti, Elvira di dieci e Mario di sei, l’ultimo nato. La grossa brocca di coccio era stata vuotata per l’impasto ed Anna Maria aveva dovuto riempirla nuovamente alla fonte comunale di Su Au ( il guado), non molto distante dall’abitazione. Rientrando con il recipiente colmo sulla testa, proprio nell’entrata del vicolo chiuso che portava alla casa era trasalita fermandosi improvvisamente. Fece traballare la brocca che non cadde perché assicurata da “su tidili” (uno strofinaccio attorcigliato e legato in tondo, che fungeva da “cuscino”) che accomodato sul capo, oltre che ad eliminare l’attrito ne spianava la sfericità. Nella piccola salita, una gallina di proprietà della famiglia, si era avventata su un disgraziato topolino che la attraversava fulmineo. Essa lo beccava da tutte le parti fino a mettere a nudo la carne viva e nulla poteva mettere in dubbio che lo avrebbe divorato. La ragazza rientrò in casa e mise al corrente la madre:

<<Lo ha ucciso e lo mangiava proprio di gusto.>>

<<E’ proprio un guaio. Ora la gallina smetterà di fare le uova>> disse Peppina.

<<Oh! Che peccato!>> Dissero in coro Elvira e Mario.

<<Metteremo riparo all’antica: Anna Maria ed Elvira confezioneranno un topolino di pasta di pane che daremo alla gallina, con questo sistema la indurremo a fare nuovamente il suo dovere>> continuò Peppina.

Le due ragazze sorrisero e con grande impegno si misero all’opera incominciando dalla coda che fecero lunghissima mentre Peppina si immergeva nel ricordo di sua nonna che le aveva raccomandato siffatto rimedio durante la sua gioventù e che lei più volte aveva adottato

Venerdì, 07 Dicembre 2012 00:00

Il Battesimo

di

Agostina Usai

 

Cecilia, la mattina della domenica delle palme, aveva preparato il ripieno per i "culurgionis". Gli avrebbe completati con i dischetti di pasta fresca chiusi con le dita sottili e abituate fin da ragazzina a configurare una spiga di grano perfetta.

<<Mi sembra che arrivi qualcuno, sento dei passi salire per le scale>> disse Angela, la sorella maggiore <<sembra un passo d'uomo>> continuò.

Cecilia si affacciò alla porta e vide che effettivamente un uomo giovane veniva su per le scale. Egli alzò lo sguardo, gli occhi nerissimi brillavano ridenti.

<<Buongiorno Cecilia, scusa il disturbo ma devo chiederti un grande favore.>>

<<Ciao Francesco, entra, accomodati>> rispose la ragazza. Egli entrò e si sedette. Cecilia conosceva bene il giovane fin da bambina ma ancor più da quando aveva sposato Anna, la sua migliore amica.

<<Anna ha insistito così tanto perché venissi adesso, è impaziente di avere la tua risposta.>> Il giovane tamburellava con le dita sul tavolo guardando Cecilia la quale aspettava che spiegasse di che tipo di favore avessero bisogno. Anna lo aveva reso padre di un bellissimo maschietto da appena una settimana ed egli sprizzava felicità da tutti i pori.

<<Sai com'è l'usanza da noi, il bimbo ha già una settimana e dobbiamo battezzarlo. Saremo molto onorati se volessi essere tu la madrina. Speriamo entrambi che tu accetti.>>

Cecilia si commosse a tal punto che non riuscì a parlare e gli occhi le si riempirono di lacrime. Francesco la guardava con aria interrogativa.

<<Si, mi piacerebbe tantissimo, ma dimmi, chi è il padrino prescelto?>> Rispose.

<<E' mio fratello Carlo, spero non ti dispiaccia>> disse Francesco.

Carlo le piaceva ma secondo lei si dava troppe arie. Era pur vero che era proprio bello con quegli occhi nerissimi come i ricci capelli. Ma da un po’ di tempo quando la incontrava le strizzava l'occhio come se fossero complici di chissà che. A Cecilia quel far l'occhiolino dava sui nervi. Ci vedeva una forma di presunzione e di arroganza "Chi crede di essere, il padrone del mondo?" Pensava ogni volta. Adesso questo fatto del battesimo la metteva in crisi, però Carlo piaceva a molte ragazze e l'occhiolino oltre che ad infastidirla poteva anche lusingarla. Ma con lei, aveva intenzioni serie o voleva soltanto giocare?

<<Francè, dammi qualche giorno per decidere poi ti farò sapere.>>

Francesco si alzò e si accomiatò con una stretta di mano.

Angela accolse Cecilia sorridente, era pervasa da una sorta di rispetto particolarissimo e la ragazza capì che aveva origliato. Arrossì, si sedette e provò a spiegare che non era pronta ad accettare quell'onere.

<<Ti rendi conto che per il bimbo dovrei essere una seconda madre? No, è troppo impegnativo, non ce la faccio.>>

Ma il pensiero era un altro: Carlo. L'idea di trovarselo vicino le faceva uno strano effetto. L'occhiolino la scombussolava alquanto e si stizziva al punto che avrebbe voluto schiaffeggiarlo. Però era proprio un bel ragazzo, pensava, ed allora la stizza era stranamente rivolta verso se stessa.

I genitori messi al corrente espressero il loro entusiasmo e iniziarono subito a considerare le spese per l'abito di Cecilia a per "sa strina" (il regalo) da fare al piccolo.

La ragazza dovette rassegnarsi ad accettare.

<<Andremo insieme a scegliere l'anello più bello che c'è. Lo merita perché è il primo e speriamo che ce ne siano altri perché quella che ti capita è una cosa bellissima ed il rifiutare senza un valido motivo è peccato mortale>> diceva la madre mettendo in evidenza l'importanza che la società dava al sacramento del battesimo.

Il battesimo si doveva svolgere il prima possibile e dopo una settimana dalla richiesta di Francesco, tutto era già pronto.

Le parenti prossime di Anna avevano preparato per il festeggiamento: "is pistoccus, is amarettus e su gattou", (tipici dolci comuni a buona parte della Sardegna) ed anche due varietà di liquore.

Una cuginetta di Francesco avrebbe portato il bimbo in braccio; un'altra ragazzina avrebbe portato il lungo cero ornato dal nastro bianco, quest'ultimo doveva essere rigorosamente largo sette centimetri e lungo non meno di un metro, il cero doveva donarlo il padrino mentre il nastro doveva essere dono della madrina; una seconda ragazzina avrebbe portato il recipiente con l'acqua calda da mischiare a quella del fonte battesimale.

La mattina della domenica dopo Pasqua Cecilia mandò il nastro bianco per ornare il cero a casa di Anna e Francesco i suoi prossimi compari di San Giovanni (quello era l'appellativo dato ai padrini e ai genitori riferito al biblico Battista). Cecilia se ne stava di fronte allo specchio provando l'abito e le scarpe nuove. Vedeva il suo viso pulito con lo sguardo dolce dei suoi occhi chiari e mentre si osservava alla sua immagine si sovrappose il volto bruno di Carlo. "Che cosa fai a casa mia? Cosa fai nei miei pensieri?" Il suo volto tornò in superficie facendo annegare per un attimo l'altro che un secondo dopo riemerse.

<<Uffa, uffa. Vai via! Ma chi ti vuole!>> Disse a voce alta la ragazza e Angela dall'altra stanza chiese:

<<Che hai detto?>>

<<Niente, non ho detto niente>> rispose Cecilia.

Nel tardo pomeriggio si recò a casa di Anna. Carlo era già presente e nel vederla arrivare gli si illuminarono gli occhi e sfacciatamente e velocemente strizzò l'occhio destro. Cecilia non se lo aspettava e pensando che egli avrebbe meritato un sonoro ceffone si lasciò sfuggire una piccola smorfia di disgusto. Il ragazzo arrossì violentemente e divenne tristissimo.

La giovane madre baciò il piccolo e con frasi di circostanza lo raccomandò a Cecilia, si asciugò una lacrima e disse:

<<Andate in buon'ora>>.

Il piccolo corteo si incamminò verso la chiesa di S. Maria Maddalena. Tutti osservavano il piccolo corteo composto da Francesco, dai padrini, dal piccolo e dalle tre ragazzine. Compiti, avanzavano vestiti a festa tra gli sguardi curiosi dei vicini. Presto si sparse la voce tra i passanti: <<Est passandu unu battiari>> (sta passando un battesimo). Mentre osservavano il contegno del corteo mandavano al bambino un augurio speciale: <<Siada in bon'ora>> (che sia venuto in buon'ora).

Il prete officiò il Sacramento con perizia. Egli pronunciava le domande di rito e tutti diligentemente rispondevano. Carlo a un certo punto si distrasse. Il sacerdote gli rivolse per due volte la stessa domanda ed allora Cecilia con un sorriso, gli toccò delicatamente una mano. Egli riprese coraggio e mandò anche allora il solito messaggio: un'energica strizzatina d'occhio. "Continui a fare il discolo" pensava Cecilia, ma qualcosa era cambiato: la voglia di piazzargli in faccia un ceffone era diventata voglia di baci. Era bastato poco e si era innamorata.

Il suo sguardo dolce portò Carlo ad una confusione totale, egli sbagliava e ritardava le risposte che la cerimonia richiedeva ma aveva il cuore che gli scoppiava di gioia, mentre Cecilia tratteneva a stento qualche risatina.

Uscirono dalla chiesa e si diressero verso la casa di Francesco. Gruppi di bambini andavano dietro al padrino gridando la solita tiritera:

<<Battiari sciuttu sfunda buxaccas.>> (Battesimo asciutto sfonda tasche). Era la solita provocazione per costringere il padrino a gettare dei soldini in aria in senso propiziatorio per il piccolo appena battezzato. Carlo felicissimo affondava le mani nelle tasche e lanciava per aria tante monetine che i bambini in fretta raccoglievano. Intanto Cecilia rispondeva, anche lei felice, alle frasi augurali delle persone che incontravano:

<<Siada begniu in ora bona. Bona furtuna tengada.>> (Sia arrivato in tempo buono. Che abbia una buona sorte).

E lei sorridendo ringraziava:

<<Deus bollada!>> ( Dio voglia).

Alla fine del tragitto Carlo trovò il modo di sussurrarle all'orecchio: <<Sabato manderò mio padre dal tuo. Ti prego non rimandarmelo a casa con la zucca del diniego.>>

Ma il sorriso di lei faceva presagire ben altra conclusione.

Giovedì, 06 Dicembre 2012 23:49

Il pastorello e la “Madonnina”

di

Elio Ignazio Raffaele Moncelsi

 

I miti e le leggende, si sa, sono ritenute frutto di fantasia, ma nascondono sempre un fondo di verità, quando non accada invece che una ricerca scientifica ne riveli una totale corrispondenza storica, come fu per la città di Troia, o per il libro di quel “ciarlatano” di Marco Polo. Per centinaia di anni gli uomini si sono emozionati sui versi dell’Odissea e dell’Iliade, con le storie dell’astuto Ulisse e le gesta di un meno simpatico e più improbabile Achille fino a che un archeologo (o meglio, un cercatore di tesori), tale Heinrich Schliemann, scoprì Troia. La scoprì nella stessa zona dove la aveva indicata Omero, col nome di Ilio, nel suo poema. Non c’è da meravigliarsi che anche la Sardegna, con una storia antica quanto e forse più di Troia, abbia i suoi miti e i suoi eroi leggendari. Uno dei popoli antichi che hanno abitato l’isola ha un nome che richiama i profughi di quella città distrutta, gli “Iliensi”.

Le braci dei fuochi domestici, sos fochiles, attorno ai quali si raccoglieva ogni famiglia, erano ispiratrici di mille leggende con le quali si tramandava la storia, ricamata e condita con la fantasia. Così avviene, per farla breve, che un evento reale passi di bocca in bocca, da un fuoco all’altro, arricchendosi di elementi nuovi e spesso fantasiosi; non c’è un castello che non abbia un passaggio segreto che porti lontano, magari fino al mare, né un nuraghe da cui non si possa arrivare attraverso un cunicolo ad un altro nuraghe vicino a cui è collegato. Ricordo tra i tanti il racconto di un amico di Ulassai, che spergiurava fosse vero, anzi, verissimo: diceva che un uomo del suo paese era entrato per caso in una grotta e vi aveva incontrato uno gnomo il quale, a gesti, lo condusse in fondo a un cunicolo dove era accumulato un tesoro immenso, luccicante d’oro e di gemme; uscito fuori dalla grotta cercò amici che lo aiutassero a portare via il tesoro, ma non ritrovò più l’ingresso.

Tanto bastò per fare di me il più entusiasta degli speleologi dilettanti, ma non so dire se ciò era dovuto alla febbre della scoperta o a quella dell’oro, per via del fantomatico tesoro custodito dallo gnomo. Da ragazzo poi avevo una vera passione per l’avventura e l’esplorazione, interesse che condividevo con un gruppo di amici; condividevamo anche una buona dose di incoscienza. Eravamo dei temerari con una smania tutta giovanile di voler arrivare laddove nessuno era mai stato e di scoprire grotte fino allora inviolate. Teatro delle nostre scorribande erano le montagne impervie che dalle cime innevate del Gennargentu e dagli strapiombi selvaggi del Supramonte si precipitano, balza dopo balza, sino ai bianchi arenili del mare con le sue acque cristalline. Sempre alla ricerca di nuovi sentieri chiedevamo ai vecchi pastori informazioni e notizie sulle montagne dove avevano accudito le mandrie e le greggi. Fu così che facemmo conoscenza con Tziu Bobore, un vecchio di Urzulei con cui trascorrevamo momenti indimenticabili ascoltandolo raccontare le storie di una vita lunga e laboriosa. Seduti davanti al fuoco del camino nella stanza piena di fumo e di ricordi ci narrava dei tempi di guerre e di pace, che pace non era, perché nella Sardegna di cento anni fa la vita era dura, una battaglia per la sopravvivenza tra fame, banditi e malattie.

Tre volte era stato richiamato: per la “Grande Guerra” del ‘15-’18, per la campagna d’Africa e poi nella II guerra mondiale. Come la maggior parte dei soldati sardi era di bassa statura, tanto che il moschetto ’91 quasi lo superava in altezza, anche senza innestare la baionetta, ma per coraggio e dirittura morale era un gigante; di lui e dei suoi compagni si diceva che non temessero nulla e che fossero disposti a scendere fino all’inferno. Quella era gente cresciuta tra le montagne affrontando mille pericoli, le avversità di uomini crudeli e di una natura ostile, gente che aveva superato una selezione naturale spietata imparando una lezione di sopravvivenza più dura di qualsiasi addestramento militare, una lezione che non aveva nulla da invidiare a quella impartita ai guerrieri Spartani nell’antica Grecia. Bobore accendeva il fuoco con l’acciarino e la stoppa, gli avevano insegnato fin da bambino a sparare con il fucile a bacchetta, quello ad avancarica per intenderci, a dosare la polvere e a non sbagliare un colpo.

Nel resoconto degli episodi e documenti della campagna 1915-1918, “Il valore dei sardi in guerra” , è descritta minuziosamente l’azione che gli aveva fatto meritare la medaglia di bronzo al valor militare per la conquista di una postazione nemica: non ha mai saputo che nei libri ci fosse scritto anche il suo nome e ciò che avevano fatto lui e i suoi compagni, di cui ci raccontava. Come un aedo omerico che parlasse delle gesta di Patroclo e di Achille, lui incantava noi ragazzi cresciuti tra tv, calcio e fumetti. Erano i primi anni ’70.

Tziu Bobore, Mulas Pietro Salvatore, noto Crobeddu, era vecchio allora, ma quando andavamo insieme in campagna, a caccia o a cercare grotte nascoste su quelle montagne che lui conosceva come le sue tasche da quando era pastore, nessuno gli teneva dietro. Anche quando guidava un gruppo di uomini seguendo le tracce delle pecore “smarrite”, o per meglio dire, rubate, in quella che da noi si chiama sa tratta non era facile stare al suo passo: come chertadore, cercatore di tracce, non aveva pari; col fucile in spalla, antico quanto lui, seguiva sicuro le orme e il suo occhio infallibile individuava la direzione presa dai ladri fino a dove gli abigeatari avevano portato il gregge.

Mulas Pietro Salvatore era nato nel 1896 ed era stato pastore fin dall’età di sette anni, quando il padre lo ritirò da scuola per mandarlo a lavorare in campagna ad accudire il gregge di capre di un parente. Invano il maestro tentò di convincere il padre di Boboreddu che il suo piccolo alunno era uno studente troppo promettente per essere condannato ad un mestiere che, per quanto dignitoso, non gli avrebbe concesso di raggiungere traguardi maggiori. Il padre non si fece distogliere: il destino era già segnato per quel ragazzo sveglio e intelligente, ma pur sempre figlio e nipote di umili pastori.

Fu in quegli anni a cavallo del ‘900 che il ragazzetto, seguendo le capre sul costone della montagna che incombe sopra la sua Urzulei, si imbattè in un anfratto tra le rocce, che si rivelò essere una grotta di una certa profondità; curioso, come tutti i ragazzi, vi entrò dentro e trovò un ripostiglio di oggetti di bronzo, tra i quali una “madonnina”, come la chiamò lui. La portò subito all’ovile del parente di cui era servo pastore. Gli adulti, “i grandi”, decidono per i piccoli e i padroni per i loro servi, da che mondo è mondo; così il padrone prese per sé la “madonnina” e si fece accompagnare sul posto. Con altri uomini trasse fuori una gran quantità di oggetti di rame e di bronzo dal deposito nascosto (s’aschisorju), tra cui due grandi busti di uomo a grandezza naturale, pesantissimi, che calarono con le funi dalle pareti di roccia (questi finirono successivamente nelle mani di uno spedizioniere ogliastrino, forse di Tortolì o di Lanusei). Tziu Bobore mi disse che gli abitanti di Urzulei usarono per anni le fibbie di bronzo trovate nella grotta per i finimenti dei loro cavalli.

La sua memoria era perfetta e quando gli chiedevamo di indicarci o descrivere la via per arrivare ad una località, non sbagliava mai, tranne che per il tempo di cammino necessario a percorrere la strada: noi in genere ci mettevamo il doppio del tempo. Spesso lo accompagnavamo in auto a raccogliere la frutta dagli alberi negli orti che aveva coltivato negli anni passati, strappandoli alle pietraie di una natura selvaggia; approfittava di tali occasioni per indicarci i sentieri o per condurci direttamente agli anfratti oggetto delle nostre esplorazioni. Fu così che ci accompagnò a “Sa domu ‘e s’Orcu”, la grotta dove aveva trovato la “madonnina”: ricordo i pericolosi passaggi nel costone roccioso che bisognava superare per raggiungere la spelonca e rimasi stupito dell’agilità con cui li percorse. Purtroppo l’ingresso era franato e sembrava che avessero fatto scoppiare delle bombe, tanto la grotta appariva stravolta dagli scavi dei cercatori dei tesori che si sono succeduti nel tempo.

Un giorno, ricordando la sua descrizione della “madonnina”, gli mostrai in un libro d’arte sarda alcune foto di bronzetti nuragici ed egli mi disse, indicando una delle figure: “..Mì! la madonnina era proprio come questa: uguale precisa!”.

Quella piccola statua era La madre dell’ucciso, da Urzulei, e la si può ammirare nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. Di essa fa una bellissima descrizione il grande archeologo Taramelli, a cui fu consegnata, secondo la sua relazione , da un tale Mulas Raimondo, di Urzulei, che ne era venuto in possesso in seguito a scavi clandestini (peraltro non condotti da lui), nella grotta di ” Sa Domu ‘e s’Orcu” tanti anni prima, intorno al 1904.

Non avevo mai dubitato che Tziu Bobore, all’anagrafe Mulas Pietro Salvatore, noto Crobeddu, mi avesse detto la verità.

Giovedì, 06 Dicembre 2012 23:44

Nicolau e la Perda de Liana

di

Giovanna Dessi

 

Nicolau suda e ansima, si è già pentito per la decisione presa in un momento di euforia anche se la notte precedente gli era parsa l’idea più avventurosa che avesse avuto da alcuni anni a quella parte.

Non si sente molto portato per le escursioni in montagna Nicolau. Non gli piace marciare nè portare scarpe troppo pesanti che gli danno i calli.

Sin da bambino ha evitato le battute di caccia con suo padre e i suoi zii, affidandosi al buon senso delle zie che lo coccolavano, in modo vergognoso. E poi a lui non interessa, neppure ora, ammazzare in generale non importa se si tratta di spaventosi cinghiali o volatili inquietanti.

Divenuto più grande ha cercato di esporre al babbo il suo punto di vista sulla caccia, sui pantaloni di velluto in piena estate, sugli scarponi in cuoio duro e sul formaggio acido, ma suo padre oltre a non voler intendere, pare non capire proprio.

Nicolau ama il posto dove vive, ben collocato alle pendici di vere montagne, le uniche dell’isola. Le altre della regione non sono che grandi colline comparate per esempio con Le Alpi. Circondato da variegata vegetazione che segna il ciclo delle stagioni in modo suggestivo; cieli limpidi e cibo sano. Certo vi sono due o tre cose che cambierebbe volentieri, però tutto sommato non può lamentarsi.

La sera prima ha letto un autore sardo di cui ora non ricorda neppure il nome, era italianeggiante, questo sì lo ricorda bene. Chissà se conviene dare retta a questi antro-psico-socio-etno-ologi che da lontano arrivano a scrivere discorsi sui sardi e sulla Sardegna. A lui, comunque il libro è sembrato ben scritto. Gli è piaciuto.

Parla di leggende sarde. Quella che ha attirato la sua attenzione racconta della ‘Perda de Liana’ e l’autore spiega che dietro le leggende vi è sempre un fondo di verità che va tenuto in conto. Lui conosce il detto: ‘a Perdaliana quello che vuoi ti danno’ e ancora quanto si dice su colui che improvvisamente diviene ricco: ‘o ha vinto alla lotteria oppure è stato a Perdaliana’. Certo non ha nessuna prova. Non conosce nessuno che vi sia andato. Però neppure qualcuno che vi sia andato senza niente ottenere.

Nicolau passa la notte a rigirarsi nel letto.

Non si sente particolarmente religioso. Certo, è stato sottoposto ai sacramenti come ogni seuese che si rispetti ma in realtà, lui, trova i preti inquietanti.

“Infine” si dice “questa fantomatica anima potrebbe essere un’invenzione bella e buona della chiesa per manipolare la mia coscienza e di conseguenza la mia vita. Non esiste prova alcuna che esista”.

Dopo le scuole obbligatorie Nicolau si era ritrovato a casa senza alcunchè da fare. Qualche lavoretto in un bar del paese durante l’estate quando i turisti scoprivano che là faceva fresco mentre il resto dell’isola soffocava nell’afa. Non aveva nessuna intenzione di apprendere un lavoro tradizionale, come suggeriva suo nonno, quali: contadino, calzolaio, pastore o ‘allevatore’ come lo definiva suo padre. Gli parevano lavori faticosi e tristi. Non si sarebbe certo arricchito in quella maniera. Nicolau sognava un’auto veloce, moderna e comoda che gli permettesse di attraversare l’isola in poche ore; una casa nel centro storico con il balconcino in ferro battuto nel quale Leonora, la ragazza più bella del paese, avrebbe goduto del brusìo felice del centro. Quale lavoro avrebbe voluto fare Nicolau non lo sapeva. Al calar della sera si fece dare un passaggio da un amico fino al sentiero per il Tònneri e armato di torcia e viveri si immerse tra corbezzoli e lentisco, nauseato dall’odore di piscio di gatto emanato dagli asfodeli.

Arriva alla base del tacco, graffiato dai rovi e stanco da morire. La bellezza selvaggia del luogo è perfettamente in tono con quanto si appresta a compiere. Fa un giro attorno alla rocca e ne osserva le larghe fessure. Qualcuno là in mezzo ha rinvenuto dei tesori, delle monete antiche, lo ha letto sul web.

Piazzò la sua piccola tenda da spiaggia tra i rami bassi di una fillirea e si apprestò a passare la notte alla frasca. La luna era sorta da poco e non succedeva niente. Annoiato Nicolau mangiò tutti i panini che aveva e bevve due birre sottratte alla dispensa familiare.

Leggermente alticcio e ipnotizzato dal frusciare degli alberi non si accorge neppure di chiudere gli occhi.

Lo sveglia un tintinnìo che pare avvicinarsi.

Quando apre gli occhi la prima cosa che vede è una strana scena. Un bizzarro personaggio mezzo nudo, alto quanto una quercia gira in cerchio a pochi metri da lui. Tiene un asino per la cavezza e legato sui fianchi un grosso sacco che tintinna pesantemente. Incredibilmente l’uomo ha delle piccole corna sul capo e al posto dei piedi degli zoccoli da caprone scalpicciano sulla roccia.

“Un diavolo?” Si dice Nicolau facendosi indietro tra i rami sperando di non essere notato. Delle luci improvvise attirano altrove la sua attenzione. Diversi esseri, grandi quanto grossi colombi, svolazzavano attorno alla Perda.

“Le streghe!” Sente un brivido di eccitazione mescolarsi alla paura. Una delle fessure della Perda proietta una luce fluorescente e, da questa le streghe vanno e vengono bagnate della stessa innaturale luminosità. Paiono grosse lucciole.

Nicolau non crede ai propri occhi. Si da un forte pizzicotto per verificare che non stia sognando ma non ha il tempo di valutarne l’effetto. Una di quelle cose svolazzanti e luminose si posiziona a due centimetri dal suo viso. È orripilante. Una minuscola e orribile vecchia dal naso adunco e gli occhi infossati che lo fissa di sbieco.

‘Toh! Un uomo’ Sibila l’essere con voce di bimba che male si accompagna al volto rugoso.

In un attimo è circondato da creature conturbati che prendono a svolazzargli intorno e a strappargli dalla testa dei capelli che usano a mo’ di frusta sulla sua faccia.

“Cosa sei venuto a cercare qui?” Chiede una di loro con tale vocetta infantile che da i brividi.

“Ma non lo sai che questa è la porta dell’inferno?” Dice un’altra.

“Lo sai tu com’è fatto l’inferno?” Ridacchia in modo orribile un’altra ancora, mostrando l’interno della bocca oscuro e senza denti in cui una lingua rosea e sottile come quella di una serpe si agita veloce.

Tutte le streghe presero a ridere e le loro bocche si deformarono divenendo troppo grandi per quei visetti incapaci di contenerle.

“Mi trovi bella?” chiede una delle mostruose creature che in un attimo è cresciuta e ora mostra un bellissimo corpo di fanciulla mentre il viso è rimasto lo stesso: agghiacciante.

“S-ss-ì” Risponde atterrito Nicolau.

La strega inizia a danzare attorno a lui fluttuando nell’aria.

“Allora dimmi, bel giovane, quale ricchezza desideri in cambio della tua anima?”

“Denaro, molto denaro. Quanto ne può entrare in una casa.” Risponde in un soffio il ragazzo.

L’essere inizia a ridere, ridere, ridere Il corpo è sospeso e le membra scomposte quasi tirate da fili invisibili di un burattinaio. Ride a crepapelle con una sonorità agghiacciante.

Un attimo dopo smette di botto e si volta.

La strega ha il viso di Leonora!

Il gigante che tiene l’asino smette di ruotare e gli si avvicina facendo tintinnare il sacco che porta sui fianchi. In una mano tiene una pergamena e nell’altra una piuma enorme che stilla di rosso. Gliele porge e sorride mostrando l’orribile bocca senza denti e senza lingua.

Nicolau trema visibilmente nel tendere la mano, si fa coraggio afferra la piuma e in un gesto conciso e velocissimo appone la firma sulla pergamena. Il gigante coi piedi da caprone pare felice e inizia a danzare attorno alla rocca, le streghe lo seguono lasciando una scia luminescente dietro di loro.

Nicolau si torce le mani nervosamente. Non sa che fare. Ha paura.

“Cosa ho fatto mai?” Si chiede.

Il suo cervello inizia a fibrillare come stesse per andare in corto circuito. Improvvisamente inizia a muovere i piedi e dandosi alla corsa raggiunge il gigante, gli strappa la pergamena dalle mani e corre sul sentiero.

Non rammenta la preghiera per liberarsi di quei demòni. Corre Nicolau, corre senza neppure distinguere chiaramente il sentiero.

È un attimo. La caduta arriva inarrestabile e imprevedibile. Sente un sordo suono e poi il niente.

È là, lungo il sentiero per Perda de Liana che viene svegliato all’alba della mattina seguente da un capraro della zona.

Ha del sangue rappreso su una tempia e la testa gli duole.

Un uomo anziano lo osserva curioso e sorridente, pare avere già visto mille volte scene del genere. Nicolau diviene rosso come un peperone, lo stesso colore delle sue mani irritate e piene di vesciche che ancora serrano delle grosse ortiche avvizzite.

Giovedì, 06 Dicembre 2012 23:42

La porta dei padri

di

Giovanna Dessi

 

Tul’ui avanza con passo pesante lungo il sentiero.

Le pietre che lo lastricano risplendono di luce lunare e ognuna di esse pare fatta per stare là dove sta, ovvero accanto ad un altra di dimensioni simili, che a sua volta pare fatta per occupare quello spazio del sentiero e nessun’altro. Al mancare una di quelle pietre dal suo luogo d’origine non si protebbe trovarne un’altra così perfetta a sostituirla.

Il percorso si snoda attraverso alberi, anziani certo, ma di questi mille volte più anziano, dalla sinuosità simile a quella dei serpenti sulla difensiva.

Tul’ui, nel percorrerlo, sempre si era sentito una formichina che passeggiava sulla schiena di una vecchia testuggine.

E una formichina si sentiva ancora alla fine del sentiero mentre osservava i monti attorno e le gole tra questi e i torrenti che da essi discendevano. Torrenti che d’inverno brillavano tra i rami dei castagni e si confondevano con il brillìo dei ginepri e cascavano tra le forre con fragori assordanti.

A lui, là in alto, di tutto quel frastuono arriva appena un sìbilo continuo come di locuste in volo.

Quei corsi d’acqua, in estate, aprivano delle ferite sui fianchi delle montagne e lasciavano cicatrici biancastre simili a quella che partiva in due il suo ginocchio e che ancora gli doleva nei giorni di pioggia. Anche alla montagna doveva dolere quel ricordo durante le lunghe estati roventi quando pareva che mai più acqua l’avrebbe sfiorata.

La pietra del riposo appare. La porta è vicina. Siede Tul’ui su quella roccia scura come la notte. Le montagne circondano la vista dello stesso colore bruno. Le pietre chiare e luminose sulle quali avanza non appartengono a quei monti. Altri popoli le hanno con cura scelte, trasportate, unite. Popoli dei quali si era è memoria. Solo le pietre ancora parlano di loro.

Tul’ui sospira.

Quel flebile suono che interrompe il frusciare degli alberi e il frinire delle cicale suona alle orecchie di Uit, il maggiore dei suoi figli, come un lamento.

Pare egli stesso tanto tempo addietro quel giovane alto, dai muscoli guizzanti come pesci e i capelli dal colore delle foglie all’approssimarsi del freddo.

Uit, ha nominato quel figlio per la potenza che il corpicino ha dimostrato al nascere. Esattamente come l’acqua l’avrebbe voluto quell’essere. Come lei distruttivo e magnanimo. Potente e paziente quanto lei.

Uit osserva babbai vecchio come la roccia sulla quale siede.

L’immagine gli rammenta la carogna rinsecchita di un cinghiale veduta da bambino. Sente lo stesso fastidio di allora davanti ai resti della potenza del magnifico animale.

Kubau osserva suo padre e sente qualcosa di sconosciuto dentro la pancia.

Non avrebbe potuto ambire a figlia più bella e più forte di Kubau, pensa Tul’ui osservando la giovane. Ultimo essere che ha ricevuto in dono dagli dèi e con gioia curato. Kubau, solida quanto una quercia, dai capelli vigorosi come giunchi, dagli occhi di brace, dai fianchi larghi che avrebbero generato figli sani.

Kubau conosce bene quel sentiero, sa che tutti i padri devono percorrerlo per permettere ai figli di regnare a loro volta. Anche le madri devono lasciare spazio al governo successivo e un giorno sarebbero passate a loro volta per la Babbai-Eca. Mammai non fece il sentiero, morì nel toglierla dal suo ventre. Sorride Kubau.

Uit pensa a colui che lo ha nutrito. Lo osserva sorridere mentre egli evitava lo sguardo paterno concentrandosi sulla luna.

Tul’ui non ha paura del passaggio. Così è stato per suo padre, per suo nonno e per il nonno di suo nonno. Così sarebbe stato per sempre.

Gli occhi di Tul’ui si velano. Sarebbe riuscito a offrire ai suoi figli il riso estremo evitando il sorgere della pietà e della colpa?

Scuote la testa il vecchio e tratta di contenere quella sensazione di mancanza d’aria che lo coglie. Per un attimo Tul’ui si sente come quando il mare lo copre con violenza e gli entra in tutti gli orifizi impedendo al respiro di compiersi. Non ha paura. Non sa cosa sia. Nel suo mondo non esiste la paura. Nel suo mondo, in quello della sua famiglia, esiste sopravvivere o morire. Per sopravvivere bisogna lottare. Lottare contro altre famiglie. Contro animali feroci. Contro la fame. Contro il freddo. Contro il calore.

Contro gli dèi non si lotta. Gli dèi fanno sorgere il sole e illuminano la luna. Gli dèi fanno cadere la pioggia. Gli dèi fanno ingrossare il ventre delle donne così che i nuovi nati prendano il posto dei recenti morti. Gli dèi fanno crescere i frutti sugli alberi e popolano la foresta di bestie così che egli e la sua famiglia possano nutrirsi. Gli dèi hanno ordinato agli antichi popoli di costruire quel sentiero affinchè, quando la vita giungesse al termine, uomini e donne possano tornare alla terra madre.

Non si sogna neppure Tul’ui di discutere quanto gli dèi hanno deciso.

Anche a Uit si offusca lo sguardo. Vede se stesso percorrere un giorno quel sentiero, così come babbai lo percorre, come lo percorse il padre di babbai e ancora indietro fino a un passato per lui inimmaginabile nel quale solo gli dèi possonono scrutare.

Kubau osservò Uit. Uit osservò Kubau.

Pare a Kubau, improvvisamente, che lo sguardo di Uit assomigli a quello di babbai e lo trova piacevole. Guarda la pietra del riposo sulla quale babbai siede.

Quella pausa offre spazio al ripensamento e al dubbio e Kubau vi si abbandona.

Uit a sua volta, trova che lo sguardo di Kubau abbia delle somiglianze con quello di babbai e trasale.

Avrebbe voluto non riconoscerlo, non essere riconosciuto. Babbai avrebbe dovuto precipitare nell’abisso ridendo ed egli avrebbe semplicemente dimenticato. Come in un sogno.

È stato un uomo forte e valoroso babbai. Ora solo è vecchio. Negli ultimi anni Uit ha ubbidito più agli dèi che a babbai. Si sente più forte, più veloce, più scaltro di babbai.

Babbai aveva potere assoluto e questo potere sarebbe durato quanto lui.

Uit non immagina niente di diverso. Ciò nonostante il suo spirito è a disagio.

Kubau prende la parola distogliendolo da quei pensieri confusi.

“Torniamo a casa babbai. Ti nasconderemo alla vista degli altri. Uit prenderà a regnare sulla famiglia così come deve essere. Non passerai per la Babbai-Eca.”

Tul’ui sente le parole così come il dolore al petto che le accompagna. Gli pare che un animale vi infili le unghie con forza.

Il rito doveva compiersi.

Anche se … la femmina ha parlato e quei pensieri gli sembrarono compiuti.

Lo sguardo di Kubau dice che ha deciso.

Intende Uit che qualcosa accade.

Le parole di Kubau per un attimo lo sospendono nel vuoto. Come se ci sia lui, all’improvviso, sul bordo del baratro, alla porta dei padri. Come se l’aria gli riempia gli occhi, la bocca, i polmoni ma non in maniera sufficiente a sostenerlo così che, in caduta libera, raggiungendo la base di quegli alberi che sono nati con gli dèi, stia sprofondando nell’abisso.

Uit scuote il capo con vigore.

Le parole della donna sono state sagge. Lui, Uit, avrebbe regnato così come doveva essere.

Babbai gli appare improvvisamente più simile a quell’euforbia rituale pendente al suo fianco che al cinghiale morto visto da bambino. Il calore del sole le ha rubato il turgore eppure le gocce della sua linfa, bianche come nuvole senza pioggia, avrebbero mantenuto intatto il loro magico potere.

La Babbai-Eca non è lontana. Già la luna mostra i monti che coronano l’abisso, le valli ai loro piedi, confuse nel tremolìo pallido.

Kubau si ferma e attende che babbai li segua.

Uit con l’orgoglio che compete a un re volge le spalle al sentiero e torna verso casa.

Giovedì, 06 Dicembre 2012 23:34

Il Furbo Vacanziere

di

Giovanna dessi

 

Le viuzze del paese sono troppo strette per il suo SUV e il navigatore lo sta facendo diventare scemo.

Solo dopo alcuni giri vede l’insegna.

Parcheggio neanche a parlarne. Davanti all’hotel può stare giusto un carro a buoi. Si ferma e scende per informarsi se sia prevvisto un parcheggio per i clienti.

“Certo!” Risponde uno con un sorriso a trentadue denti. Ernesto lo osserva. L’uomo, sulla trentina, è fisicamente notevole e pare impassibile al venticello tagliente che arriva dalle montagne attorno.

Il tipo agita la mano verso una ripida salita.

“È sicuro? Avrei detto che quella portava sul tetto.”

“Sì, sì. No, no. Vada, vada.” Dice quello e sfilando un cellulare dagli attillati pantaloni se ne torna dentro.

Ernesto risale in macchina e, dopo qualche manovra a rischio carrozzeria, prende a salire la viuzza. Dopo “dico io, trecentoquaranta metri!” trova uno slargo e trascinando la sua pesantissima samsonite riesce ad arrivare nella hall.

L’uomo possente fa per avvicinarsi ma lui rifiuta l’aiuto con un cenno deciso della mano.

“Neanche per sogno. Non c’è bisogno di assomigliare ad Hulk per essere auto-sufficienti.” E con uno sforzo vertiginoso solleva la grossa valigia e la posa accanto al banco.

“Ernesto Pisano, vero?”

“Sì.”

“La aspettavamo. Io sono Antonio.”

“Bene.” Antonio non gli piace molto.

La camere sono tutte al piano terra constata con sollievo e dopo essersi informato sui ristoranti del paese, si trascina in camera.

“Carina, artigianato naif, niente muffa, doccia spaziosa.”

Si mette alla finestra. L’hotel è incastonato in una terrazza naturale dalla quale si gode una straordinaria vista sui monti circostanti. Nonostante preferisca il mare deve ammettere che la montagna ha fascino. Intorno ha il verde della foresta interrotto dall’argenteo degli spuntoni rocciosi, sormontato dal cielo che conserva uno sprazzo d’azzurro diurno, in basso alcune capre fanno tintinnare rozzi campanacci.

Non ama la malinconia. Afferra la giacca pesante e s’infila in tasca il Furbo Vacanziere.

Arrivato nella piccola hall al posto del marc’Antonio trova una ragazza. Antonio in versione femminile

“Buonasera signor Pisano. Avrei bisogno di un documento.”

Si avvicina al banco e glielo porge.

“Affascinante nome da guerrigliero. Oh! Avvocato. Bella professione.” Sproloquia Antoni@ mentre trascrive i suoi dati.

“Va beh! Me lo ridarà domani d’accordo?”

“Ma no, ecco. Grazie e buona serata”. Anche lei sorride a trentadue denti. Dev’essere l’aria buona di qui.

Ernesto si avvia. In realtà non ha idea di dove dirigersi.

Come ha detto che si chiamava il ristorantino? Si ferma sotto un lampione vintage e consulta la guida.

Allora. Mangiare in Ogliastra. Scorre il dito su una decina di nomi che paiono presi dal Libro Tibetano dei morti. Silìmbas, plamas, arghìngiu, birdesu, tetìoni, patàgaiu. Eccolo qua!”

Il ristorante si trova sulla strada principale, una breve passeggiata a piedi. Una porta a vetri è illuminata.

Il ristorante ha tre clienti, me compreso.

Il cameriere piccolo e tarchiatello, veste di nero e assomiglia Bruce Lee. Mi chiede se ho voglia di mangiare dei culurgiones.

Dico di sì. Del resto sarebbero dei ravioli. Apro la guida.

“Dunque. Spiagge, grotte, orchidee, gastronomia.

Monumenti: Perda de Liana… tipica formazione rocciosa chiamata tacco o tònneri… risultato di un’antica erosione che ha coinvolto perfino il mare…

… Situato a milleduecentonovantatre metri… visibile da tutta la Sardegna…

Anticamente, si diceva che la porta dell'inferno fosse a Perda de Liana e che lì, si ritrovassero, al chiaro di luna, a far tregenda demoni e streghe. Per diventare ricchi, bisognava andare là e vendere l'anima al diavolo, in cambio si sarebbe ricevuta qualunque ricchezza.

Beh! Al tacco allora! Alla parola tacco gli vengono alla mente dei sottilissimi tacchi e le lunghe gambe di Giulia.

I ravioli in realtà sono enormi e di una forma stramba. Buoni. Anche il Furbo Vacanziere ne parla bene.

Ma com’è che io non li avevo mai mangiati?

Bruce torna con il conto e un bicchierino d’acquavite.

“Senti, scusa, posso farti una domanda?”

Quello mostra tutti i denti. “Certo. Dimmi!”

“Cosa ne pensi della leggenda su Perdeliana?”

Quello si porta una mano al mento.

“Beh, sono stato là diverse volte, anche la notte, ma non ho mai visto aperta la porta de s’inferru se è questo che ti interessa.” E allarga il sorriso.

Sono imbarazzato. Butto giù il bicchierino. Il mio stomaco prende fuoco. Pago e vado via.

La notte trascorre ovattata. Perdaliana è il mio primo pensiero al risveglio. Aspetterò là che sorga la luna. Ho portato l’igloo per i casi di emergenza.

Mi trascino pigramente per l’intera mattinata, godendo del sole che mitiga l’arietta buona ma penetrante. Studio il tragitto per il tacco. Prendo informazioni dai locali. Ricevo indicazioni fuorvianti e incomprensibili. Userò il navigatore.

A pranzo mi reco alla trattoria della sera precedente, la sola del paese.

Alle quindici in punto sono all’inizio del sentiero per il tònneri. Il percorso è affascinante, mi sento intrigato e ho voglia di mettere alla prova la mia forma fisica.

Intorno la bellezza è selvaggia. Mi sento quasi un viaggiatore d’altri tempi che va alla scoperta di antiche civiltà. Non incontro nessuno. Il posto è deserto e il lezzo dell’asfodelo mi accompagna.

Il tacco mi appare dietro un fitto arbusto. Mi aspettavo qualcos’altro. Emerge sì e no per cinquanta metri. Quanto rimane di un’antica montagna è tutto lì. Non essendo un geologo, non mi entusiasmo.

La notte arriva prima di quanto pensassi. Apro la tenda e mi ci infilo avvolto in un bel plaid caldo.

La luce lunare rende spettrale lo scenario.

Portando gli occhi al tacco, vedo dei bizzarri esseri, troppo grandi per essere insetti, che gli svolazzano attorno. Le fenditure della rocca emanano un irreale bagliore.

“Allora mister, deciso cosa?”

Mi irrigidisco e mi volto: un uomo elegante siede disinvolto su una roccia a due passi da me.

La tenda mi si avvolge attorno mentre cerco di mettere spazio tra il mio corpo e quella cosa che non dovrebbe essere là.

“Scusa, ti ho messo paura. È un mio pregio, arrivo sempre di soppiatto.”

Non ho il coraggio di fiatare.

Le cose svolazzanti si sono avvicinate. Spaventoso. Inizio a preoccuparmi seriamente per la mia salute. Un tumore al cervello è il solo pensiero coerente.

Sono delle vecchie. Brutte. Rivoltanti. E un attimo dopo sono piccole e delicate. Bellissime. E poi ancora sono degli inquietanti insettoni dai quali una testa di donna pende con occhio torvo. Le mie mani tremano visibilmente.

Pare tutto vero e reale.

Cosa faccio?

Non oso guardare il tipo elegante, sento che mi fissa. Attende davvero una risposta. Non era una semplice visione. Pare esistere. È assurdo.

“Allora?”

Sento la pelle d’oca sulle braccia.

“Giulia.” Dico in un sospiro.

No! Com’è possibile che io abbia pronunciato tale sciocchezza?

Abbasso la testa e la nascondo tra le mani desiderando che le allucinazioni scompaiano.

Quando riapro gli occhi sento dei rumori e sono completamente sudato.

Il mio cellulare sta vibrando sul comodino e i raggi del sole inondano la stanza.

Perdo la chiamata. Guardo l’ora: le undici del mattino. Non capisco. Non ricordo di essere tornato in hotel dopo la richiesta al …

Al…

Al… Diavolo?

In un altro momento riderei. Ora non mi sembra il caso. La chiamata persa era di Giulia.

Il mio cellulare riprende a vibrare. GIULIA.

Premo ‘Ok’.

“Ma allora te ne sei davvero andato in vacanza da solo. Stronzo!”

Il cellulare si spegne. Lo metto in carica e lo riaccendo.

Ora sì rido. È stato tutto un sogno anzi no, un incubo. Non ci sono mai stato a Perdaliana.

E Giulia non ha mai smesso di sbavarmi dietro.

Mi sdraio sul letto, incrocio le gambe e guardo il cielo azzurrissimo fuori dal vetro.

Quando arriva l’essemmesse so già che è di Giulia.

Impallidisco. Non è di Giulia.

“Contratto andato a buon fine mister.”

Anonimo.

Un altro essemmesse. “Dove sei, ti raggiungo. Giulia.”

Faccio una doccia, prendo la giacca ed esco. Imposto le coordinate per Perdaliana.

Mentre guido, dirigendomi all’uscita del paese, mi vengono in mente le calze autoreggenti di Giulia. Le sue gambe ci stanno dentro. Quello che ora mi preoccupa e che sulle gambe c’è pure il resto del corpo. Compresa la faccia stizzita e sdegnata che ha di solito.

Io non avrei mai fatto una richiesta del genere. Avrei chiesto che so cinquecento milioni di euro. La vita eterna. Lady Gaga.

Arrivato al sentiero per il tònneri il mio viso si distende. Un grande cartello è scritto in rosso: SENTIERO IMPRATICABILE. PERICOLO. Finalmente anch’io sorrido a trentadue denti.

La retromarcia gratta rumorosamente senza darmi sui nervi. Sono talmente contento e neppure Giulia, che sta facendo vibrare ininterrottamente il mio cellulare, riesce ad irritarmi.

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 21:14

La morte sul ventre

di

Stefano Aranginu

 

- Si tratta di degenerazioni del corpo luteo, ciò che rimane residuo da ogni uovo che viene espulso ad ogni ovulazione. Cisti. A volte diventano più grandi delle stesse ovaie. Non è possibile asportarle perché sono, come dire: attaccate. Dovranno operarti per una asportazione dell'utero. Mi dispiace. Mi dispiace tanto.

Il dottor Monni conosceva Giuseppina Depau da quando era poco più di una bambina. Ora, lei aveva trentadue anni. Il medico si ricordò che Giuseppina aveva una sorella, più piccola di un anno, ma in quel momento, gli sfuggiva il nome.

Aveva una sorella.

Giuseppina si rivestì con calma. Ringraziò il medico, per quel senso di umanità e delicatezza con cui aveva espresso quella sentenza di non nascita: il ventre di Giuseppina non avrebbe potuto essere la casa fetale dei suoi figli, come tanto speravano, lei e suo marito.

Giuseppina uscì dallo studio. Era inverno. Nubi grigie oscuravano il cielo. La donna cominciò a correre, nel freddo e pungente gelo di quel piccolo paese, Gairo, dove era nata e dove viveva. Mentre correva, pensò a quante cose erano cambiate, da quindici anni a questa parte: l'elettricità, il riscaldamento, la televisione, le automobili ormai ovunque, quello strano macchinario con cui aveva avuto a che fare all'ospedale di Lanusei, che mostrava più sentimenti del ginecologo che la visitò. Giuseppina pensò a quali mali si nascondevano nel suo ventre. Cosa c'era. Cosa non ci sarebbe più stato. Cosa non avrebbe mai potuto esserci. Si dirigeva verso un posto ben preciso. La sua non era una corsa folle e disperata: priva di uno scopo. Sapeva benissimo dove si stava recando. Un posto dimenticato dal tempo e della memoria, che all'improvviso le si scagliò addosso con tutti quei ricordi sepolti, affogati nell'acqua gelida di un inverno di quindici anni fa. Sfumature di oblio dentro il liquido plumbeo e purissimo, nel fondo di una verità che toccava, accasciandosi sul fondo di ciottoli, il suo cuore stanco. Erano pesanti, quei ricordi, che si unirono al resto di ciò che pensava: due vite che non avrebbero potuto mai congiungersi, l'una dentro l'altra. La tragica notizia da dare al marito. L'inverno. Il gelo. Le urla. I ricordi.

I ricordi.

Sepolti sott'acqua. Ma ancora vivi.

La famiglia Depau abitava da generazioni a Gairo. Il Padre, Sebastiano Depau, prese in moglie una compaesana, Filomena Angius, umile donna figlia di contadini. Dopo due anni di matrimonio diede alla luce Giuseppina e, un anno più tardi, Susanna Depau. Presso la famiglia, vigeva un odio che sprofondava le proprie radici fin dai loro avi, nei confronti di un'altra famiglia, quella dei Lorrai, che fortunatamente abitavano dall'altra parte del paese. Ormai nessuno sapeva più le ragioni di tanto risentimento, ragioni che nemmeno le stesse famiglie ricordavano più, ma la faida continuava senza tregua e negli anni aveva portato sfregi, morti, vendette. Susanna Depau, cresciuta fin da piccola con l'idea di rinnegare Satana e i Lorrai, in una mattina di primavera, cambiò idea. Sui Lorrai.

Federico Lorrai aveva la stessa età di Susanna, ma si incontrarono la prima volta solo quando avevano entrambi sedici anni. Si incrociarono mentre passeggiavano per le strade di Gairo. Gli sguardi si trasformarono presto in sorrisi. I sorrisi divennero parole. Le parole, si espansero in abbracci e baci. Riuscirono a tenere nascosto il loro amore per quasi un anno, incontrandosi solitamente ai piedi della cascata del rio Sarcerei, non molto lontano dal paese, che offriva un riparo sicuro e buio in alcuni antri che Federico Lorrai cercò in nome dell'amore celato, in quell'estate umida di baci e acqua purissima.

Nel novembre successivo, durante una notte non troppo fredda, Giuseppina udì la sorella più piccola piangere e disperarsi.

-Sorella mia, per quale motivo stai piangendo?

Susanna in lacrime accese un lume di candela, e mostrò alla sorella un panno. Pulito. La sorella maggiore comprese subito che Susanna piangeva il mancato mestruo.

- Domani ci recheremo dal dottor Monnu, e vedrai, si risolverà questa cosa!

- No, non c'è bisogno di andare da lui, so già quello che mi sta accadendo... E' il secondo mese ormai che non ho più il mestruo... Sorella mia, porto dentro me un fardello troppo pesante, se babbo lo scoprisse mi ucciderebbe di botte, e ucciderebbe anche lui...

- Cosa dici?

- Prima prometti che quanto ti dirò rimarrà per sempre un segreto, che nessuno verrà mai a saperlo... - Susanna prese per entrambe le mani la sorella, implorante, disperata.

- Che Iddio mi maledica, se non manterrò la mia promessa.

- Da un anno a questa parte, mi incontro con Federico Lorrai...

- Vuoi dire che... - Giuseppina si portò una mano alla bocca. Non poteva crederci. Il padre davvero l'avrebbe ammazzata di botte, se avesse scoperto una cosa simile. Ne sarebbe andato dell'onore di tutta la famiglia.

- Shhhh!, arriva qualcuno!

Le due sorelle spensero di gran fretta il lume, e si misero nuovamente sotto le coperte. La madre delle due, sentendo delle voci, si recò nella camera per comprendere meglio. Vedendo le sue due amate figlie addormentate, tornò a coricarsi pure lei. Susanna, cercò di addormentarsi, trovando nel buio e nel silenzio una serenità inaspettata. Giuseppina, al contrario non dormì. Per tutta la notte pensieri e buio le tennero compagnia, fino a quando l'alba accarezzò il mondo, e illuminò la mente di Giuseppina sul da farsi.

In una mattina di dicembre, le due sorelle furono mandate a raccogliere delle fascine di legna. Proprio quella mattina, Susanna aveva appuntamento con Federico, ai piedi della cascata del rio Sarcerei. Il suo amato, però, avrebbe dovuto aspettare l'arrivo di Susanna, impegnata con la legna. Le due sorelle si diressero in prossimità del dirupo del rio. L'aria fresca e il sole che baciava il volto di Susanna, le fecero dimenticare per un istante i suoi pensieri. Quando la ragazza finì di preparare la fascina di legna, chiese aiuto alla sorella per issarla sopra il capo. Giuseppina si avvicinò a lei. La osservò come se di fronte avesse una bestia immonda. Nei suoi occhi era visibile un disgusto mai apparso prima. Senza esitare un attimo di più, spinse la sorella giù dal dirupo, che per la stanchezza e la debolezza non fu capace di opporre alcuna resistenza.

Giuseppina, mentre scendeva verso valle, udì un urlo atroce, quasi gutturale, proveniente dai piedi della cascata, e corse subito ad osservare.

Incontrò il corpo della sorella, dilaniato, deturpato, freddo, sanguinante, avvolto nelle braccia disperate di Federico Lorrai. Il ragazzo si accorse dopo alcuni minuti della presenza di Giuseppina, che lo osservava con disgusto. Guardando il volto di Giuseppina, comprese immediatamente. Comprese i sospetti della sorella, di quanto gli confessò tempo addietro. Quello strano silenzio di tutta la famiglia riguardo la faccenda, quasi a far calmare le acque. Ora, Federico capiva ogni cosa. Posò sulla terra il corpo privo di vita di Susanna. Si avvicinò a Giuseppina, tanto che lei poteva ascoltare il suo respiro. Sapeva che il ragazzo, l'avrebbe potuta strangolare con una sola mano. Forse Giuseppina non aspettava altro. Sussurrò qualcosa all'orecchio di lei.

- Che Iddio ti maledica, Giuseppina Depau. Che tu possa avere le pietre nel tuo ventre, e la tua stirpe possa morire con te. Non ti uccido solo perché sono uomo, e non bestia, come bestie sono quei pazzi della mia famiglia e della tua, più preoccupati ad uccidersi tra di loro, che non a trovare accordo per chissà quale torto di cui nessuno ha più memoria. Che Iddio possa privarti dell'unico scopo per cui donna sei nata.

Il primogenito dei Lorrai si diresse verso il corpo di Susanna. Lo prese a sé per poi gettarlo nell'acqua. Si mise seduto ad osservare la cascata, imitandola, nel suo pianto.

Giuseppina non si lasciò impressionare da quelle parole. Sapeva di aver fatto il bene della sua stirpe. Mentre si girò per andarsene, un brivido le percorse la schiena. Senza spiegazione alcuna, cominciò a correre.

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 20:12

Sa Babbaieca

di

Alessandra Piras

 

Non oggi. Non ancora. Non è ancora arrivato il momento.

Mille e trecentocinquantadue passi esatti. Li ho contati. Nelle notti di luna piena, senza che nessuno mi veda, esco e cammino fino a li, contando i miei passi. Un piede dietro l’altro.

Mille e trecentocinquantadue passi dalla mia casa fino a li.

Ormai, sono quasi rassegnato. Ci penso e ci ripenso. E’ il mio destino, lo stesso delle persone che mi hanno preceduto. Identico a quello di mio padre. A quello dei miei nonni. Lo stesso identico destino delle persone che mi seguiranno. Eppure, quando arrivo li, al limite della terra, il terrore mi assale. E allora, ricordo ogni piccola meraviglia che ha brillato nella mia vita. Ricordo quanto è bello svegliarsi che è ancora buio e recarsi all’ovile, dove il bestiame, paziente, aspetta. Ricordo quanto era caldo il latte appena munto. E i vapori che salivano fino al mio naso, stuzzicandomi l’appetito. Ricordo il mio primo bacio, dato per gioco, a 7 anni, a una bambina della mia stessa età. Ricordo il ripieno dei culurgioni, quanto era buono, crudo. Rubarne un po’ mentre mamma non mi osservava. E fuggire ridendo appena lei, mamma, intuiva il mio furto e si apprestava a colpirmi con il mestolo di legno. Ridevo scappando da lei con il boccone pieno.

Milletrecentocinquantadue passi. Saranno abbastanza, per pentirmi di tutti i peccati commessi in vita mia? Saranno sufficienti a chiedere perdono? Saranno lunghissimi, o brevissimi, da percorrere? Quanto il tempo che ci mette una foglia d’autunno a toccare terra.

 

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 20:10

Delia

di

Carlotta Silvestrini

 

Delia posa i candidi palmi sulla pietra ruvida, percependo il calore amorevolmente donato da un mite sole marzolino.

E' il periodo migliore, l'Ogliastra è tutta un trionfo di colori e profumi.

Incredibile, pensa Delia. Trasmettere tanta bellezza solo mostrando un color di petalo, come può essere possibile? Cosa pensi, Terra mia? Sei forse adirata per il calpestarti noncurante dei tuoi figli? O ti muovi al canto della concordia vocis? Ti sento, Terra mia... ti sento... ti respiro...

Delia socchiude gli occhi e si lascia cadere nelle memorie del tempo.

Con maestria scivola delicata in un contesto arcaico, nell'aria l'aroma invitante del pane appena sfornato si mescola a quello più rustico della cenere rovente, e non v'è altro suono se non quello ritmico della pala che entra ed esce dalle voraci mani del fuoco.

Un'anziana matriarca sorveglia le operazioni dalla sua quotidiana postazione, una seggiolina da ricamo che pare sottratta ad un bambino tanto sono corte le quattro gambe che ne sostengono il pagliericcio intrecciato.

Catenelle di pizzo scendono rapide sulla nera gonna di vedova, i piedi scalzi sul pavimento di nuda terra battuta.

Un'altra donna, più giovane ma non di molto, ripulisce ingobbita un piano di lavoro abilmente creato da sapienti mani maschili. Il canovaccio liso sfrega imperterrito le venature farinose, alzando piccoli nugoli di polvere bianca, che si spargono disordinatamente nell'aria alla luce di un sole invernale, in questa stanza tanto spoglia, quanto piena di rurale intensità.

Poche parole, quelle giuste, misurate, essenziali, attraversano la cucina per correggere le gesta inesperte di una futura sposina, che si affretta ad imparare l'arte d'essere donna e matriarca a sua volta.

La giovane vive con riservato senso di gratitudine quel momento - tanto atteso - in cui le sue criptiche progenitrici la elevano da bambina a donna. Ella fa tesoro delle poche frasi che sapientemente la istruiscono, attenta a percepire ogni più piccola espressione nei volti quasi lignei delle anziane, perché sa che non c'è spazio, in quella casa, per gli elogi.

Non vi è alcuna mala intenzione nei loro animi, ma là fuori il mondo è duro come il granito e bisogna essere altrettanto duri per sopravvivere.

L'anziana matriarca tace da molte ore ormai. Approva. Si mortifica mentalmente nel momento in cui un moto di compiacimento si fa strada nel suo longevo cuore, consapevole che tutto ciò che sta osservando è sangue del suo sangue, Sapere del suo Sapere: le sue callose mani hanno intessuto decine di lunghi tappeti di lana, mondato fresche verdure, sciacquato bucati candidi nelle scroscianti acque dei ruscelli.

Ha già provato vergogna di fronte all'errore, la sera, rincasata dopo lunghe marce in mezzo ai campi, quando una feroce cinghia le ha sferzato la schiena e lei non riusciva a comprendere cosa bruciasse di più, se la dignità o la carne. E' difficile scegliere se impartire o meno una dura punizione, ma alla fine vince la paura di sbagliare, di diseducare e allora si sceglie di punire, di colpire.

Il tepore del giorno ridiscende la Valle dei Tacchi; appena accennata, una falce lunare inizia ad intravvedersi nel cielo. Un belato ovino particolarmente intenso riporta Delia al nostro tempo, la quale si desta come in preda ad uno smarrimento.

Si sfiora la schiena, si osserva le mani. Non c'è traccia di cicatrici o residuo di semola.

Nella sua mente si dissipa quell'intensa sensazione di vita passata, era forse lei?

Dal suo vetusto sedile di pietra, la mente galoppa verso tempi lontani. Una volta suo padre le aveva raccontato che “le promesse fatte all'ombra dei Nuraghe sono sacre” e – incuriosita - si era fatta narrare remote leggende che vedevano uomini d'onore stringersi reciprocamente le mani possenti, consacrando il suo incondizionato amore per queste radici così nobili.

Quel ricordo apre uno squarcio ancora sanguinante dentro lei.

Cerca di riportare l'attenzione alla scena domestica di poco prima, ma senza riuscirci, e dai suoi occhi di ragazza escono grandi, inarrestabili lacrime che in pochi istanti maculano i graniti di Serbissi, il suo luogo speciale, il suo rifugio. Le ultime esalazioni del tepore solare si affrettano a cancellare le tracce di quello sfogo irreprensibile.

Il Nuraghe la sta ascoltando ed il Maestrale riprende a soffiare sul suo volto, asciugandolo in una tenera carezza.

Delia, coccolata dalla materna immensità di Madre Terra, tutto d'un tratto si quieta ed inala profondamente ogni atomo di quell'aria profumata. Percepisce l'aroma secco e terroso della sabbia granitica, quello più acre del murdegu, quello un po' dolciastro e pungente lasciato dal passaggio di un gregge. I suoi sensi ne sono deliziati, la sua Terra la ama, la consola.

I pianti sommessi aprono la strada a Morfeo, ed anche la ragazza ben presto si accascia addormentata   sulla pavimentazione granitica dell'ancestrale complesso.

Profumo di pane e cenere.

Delia sente bussare alla porta, ma non spetta a lei accogliere gli ospiti, e poi deve terminare l'ultima infornata, non può distrarsi.

La matriarca si alza dalla minuta seggiola di paglia intrecciata, percorre con passo lento e cadenzato la breve distanza che la separa dall'ingresso. Apre la porta fino ad ottenere uno spiraglio dal quale si affaccia con fare padronale.

Delia riconosce lo scalpiccio degli scarponi sulla ghiaia, che ad un tratto si interrompe bruscamente.

La sconquassata porticina si spalanca e si richiude cigolando, alcune scaglie di vernice ocra rimbalzano a terra ed il chiavistello viene rapidamente girato dalla donna più anziana, in un gesto di gelosa protezione: ha rinchiuso nel forziere i suoi tesori più cari.

I passi proseguono nella cucina, Delia si gira.

E' un attimo.

Babbo! Oh babbo!

I due sguardi si incrociano, quello di lei vibrante di amore, quello di lui sorpreso ed imbarazzato da questa sincera, libera, sconveniente esplosione di affetto al quale nessuno in quella stanza è avvezzo.

Delia lascia cadere la pala, corre verso il suo perduto e ritrovato genitore, lo stringe fortissimo percependo tutto l'amore del Creato, e nel suo giovane corpo è tutto un trionfo di colori.

La pelle di suo padre è una mistura esotica di fogliame e tabacco, la barba incolta sempre un po' ispida a contatto con il suo collo niveo di ragazzina. La camicia ha il profumo delle ginestre e del murdegu, i capelli sono grigi come i cumulonembi dei tonanti temporali estivi, gli occhi azzurri come quei cieli solcati dal Maestrale.

Basta un istante e Delia riconosce in essi tutto l'amore di un legame indissolubile, la forza di centenarie radici e non c'è rigoroso pudore che possa proibire all'emozione di fluire libera.

Si tuffa in quel celeste ipnotico, incredula ed estatica, lo stringe forte a sé e lo percepisce vigoroso, rassicurante ed eterno come gli antichi graniti.

Chiude gli occhi come per godersi ogni più piccola sensazione che quell'abbraccio dalla potenza incrollabile le sta regalando, quando avverte alcune piccole gocce che cadono inumidendole il braccio. Babbo perché piangi?

Il grido di una Delia ridestata vibra in direzione della selvaggia Valle dei Tacchi, rimbalza sui calcari muschiati, ma essi sembrano voler ignorare la sorda, delusa disperazione di quell'urlo.

Piove.

Il murdegu esala il suo singolare aroma, mentre un nebuloso stormo di goccioline atterra prima delicato, poi sempre più deciso, sulle mulattiere polverose, sulla vegetazione assetata.

Delia cerca rapidamente riparo nella grotta sovrastata dal Nuraghe, Madre Terra la accoglie nel suo fresco antro, a modo suo la abbraccia, la consola.

Serbissi le sta di nuovo parlando.

Lì il padre le aveva dato appuntamento ed il patto è stato rispettato.

In quel luogo dove vibrano alte le frequenze dell'esistenza, nel cuore vivo di una Terra tanto ostile quanto misericordiosa, dove la vita oltre la vita si rinnova a distanza di attimi, tra il profumo del murdegu, la delicatezza degli asfodeli, l'eco di promesse antiche ma sempre onorate.. all'ombra de Nuraghe.

Mercoledì, 05 Dicembre 2012 20:05

Sa caffetera brullana

di

Violetta Arangini

 

De candu fui piciochedda intendìa a nai ca su trenu, in bidda mia, colaiat tre bortas: una borta in sa stassioni, una borta in Pissicuccu e una borta in S’Arcu de susu, ma non discìa aùba furinti cussus logus e non cumprendìa ita ingiriotu faìat. De ‘omu de babbai ddu biàus candu passaìat in su monti ‘e Perdedu, a mesu costa, sempri a is proprias oras e candu trabballiàus in s’erriargiu faìat grandu comodidadi po iscìri eit’ora fut ca tandu non tengiàus arrelloxiu.

Candu andaìa a iscola a pei, scansaìa sempri in istassioni a buffài abba de unu grifoni chi fut in su muru de perda acantu fut posta sa barza de s’abba chi serbìat po preni sa caldaia de su trenu a craboni. Peri atra genti chi torraìat de su sartu o chi deppìat movi cun su trenu andaìat a buffai in cussu grifoni e deu ddus bia ca si cungiaiant su nasu cun sa manu narandu ca ddis faìat fasciugu su fragu malu chi ddu ‘e fut. Fut su fragu de su craboni e de is travessas e, candu lompiat su trenu, ddu ‘e fut peri su fragu argu de su fumu. Non iat at essit nuscu de orrosa ma, a mei, a fradi miu e a sorrixedda mia si praxiat meda e peri immoi, candu ddu ‘ntendu, su coru miu pistat commenti de unu marteddu e mi pigat unu murighingiu chi de is intragnas mi ‘nci ‘essidi a pettòrras e mi serrat is gangas. Mi subenit sa contoneraia de Coccodu chi si faiat callentai in su fogu de sa geminera e ajaiu chi a su scurigadorgiu s’obiaìaiat a contonera cun d’unu cani chi si lamaìat Menelìcche.

Giai in cussu tempus cumenciaìat a colài unu trenu chi non bogaìat fumu e non faìat ciuff ciuff: ddu lamaìanta “locomotori”. Curriat prus de su trenu a craboni e faìat unu strebessu treulau chi mi faìat subenni su solocciu ch’iat fattu sa credenza de mammai sa dì chi si ddi fut segau unu pei e s’in di fut furriada cun tottu su strexiu chi fut aintru. Tandu si faìat spantu ca fut modernu, currìat prus de s’atru e, sigomenti portaìat duas concas, podìat andai e torrai chen’ ’e ddu deppi ponni in pissu de una piattaforma chi fut in istassioni, po ddu podit furriai.

Prus passaìat su tempus e prus disillaìat de torrai a intendi su ciuff ciuff e su nuscu argu de su fumu de “sa caffetera”; aici lamaiàus su trenu a craboni.

Apustis coiàda, po sett’annus, happu biviu in d’una ‘omu aintru de ‘idda. De is ventanas non biat ne su mari, ne su celu ne su soli candu essiat. E non si biat mancu su trenu; ddu bia fetti candu toccaìat a si firmai in su cancellu, ma iscendu ca fut unu trenu a locomotori non mi faìat nisciuna crosidadi e non bia s’ora chi ‘nc’essit sciaddìu po podi segudài.

In s’ottanta, cun sa familiedda mia, seus andaus a biviri in sa ‘omu noa chi s’eus fattu a pagus metrus de sa linia de su trenu. Sa primu dìi, candu fui ancora asseliandu su logu, ia sammunau tottu is cicheras e ddas tenìa in sa mesa, postas’ in pissu ‘e pari. Tottu ‘nd’una sa omu iat cumenciau a tremi e is cìccheras pistaìnt in pari pari faendu unu sonu de cascavellu; parìanta po si ‘ndi furriai a terra: fut colandu su trenu a locomori ma pariat su terremotu. Po unu pagu de tempus, candu colaìat su trenu e sa omu tremìat, mi spassiau a fai timi is istràgius o is parentis chi benìant a domu a nos bisitai. Calencunu ‘ndi est peri bessiu de su comudu cun is pantalonis a tira.

Apustis unus sett’annus ia intendiu ca in sa televisioni naraìant:- Nelle officine delle Ferrovie dello Stato di Cagliari è stato ultimato il restauro della locomotiva a vapore “REGGIANE” 400. Verranno attivate delle corse a scopo turistico che partendo da Arbatax, con fermata a Lanusei e Seui, ecc... ecc... D’ianta peri fatta biri; mi fut parta prus bella de comenti mi dda subenìa. Fut lìmpia, cun is luttonis luxentis e su brunchixeddu orrubiu. E deppìat passai peri apresu de ‘omu mia! Is’ arregordus de candu fui picciochedda ìanta torrau a mi preni sa conca, e su coru mi pistaìat prusu a forti.

Unu mangianu de mesu ‘eranu, fui secia in coxina pigandu-mì su caffei e, castandu su soli orrubiu chi si sprigaìat in su mari luxenti, pensaìa a cantu neas m’ia perdiu in tottus cussus annus ch’ia biviu in sa ‘omu aintru de bidda. Su soli cumeciait a irluinài e de sa ventana aberta intraìant is istriuleddus de is curculèus in amori e su cantigu sonnigrosu de is abis, imbriagas po su nuscu durci de is froris de is mattas de s’acacia. Mi pariat de intendi peri una persona chi tussiat a forti, commenti ‘e chi essit allupandusì. Creìa ca fut colandu siu Marcucciu, unu pastori chi fumaiat duus pachettus de sigarettas a sa dìi. Ma non fut siu Marcucciu. Fut su ciuff ciuff de su trenu a craboni! Inderetura ia ‘istu su fumu nieddu sutta ‘idda e apustis pag’ora, in Tunnùri, si biat sa “caffettera” chi, tussendu prus de siu Marcucciu, bessiat conca a Perdedu.

Cun su coru chi andaiat a brinchidus, ia circau sa macchina fotografica e cun is manus e is cambas chi tremianta nci fui bessia a sa ferrovia po ddu biri e po ddi podi fai medas fotografias. Non teniat fini de lompi! Ia camminau finasa a unu trettu ‘erettu craru a Tricoli e, a sa bonora, si cumenciaìat a biri in su Puleu, apustis chi ait fattu tottu su giru de Perdedu. Colaiat asutta de cantu fui apostada deu e s’araxi de su mangianu mi ‘ndi portaìat su nuscu de su fumu. Poi, po unu bellu pagu de ora, non si biat e non s’ntendìat prus nudda.

Candu ia cumenciau a torrai a intendi su ciuff ciuff, cun d’un’ogru cungiau e s’atru in sa macchina fotografica, fui bronta a fai sa prima fotografia cun su monti de Triculi a palas de sa “caffettera” e, sigomenti fut unu trettu ‘eretu, ia pessi accodìu a ndi fai una bella parìga. Su ciuff ciuff si fut fattu forti e parìat apresu ma su trenu non si biat. Intendia sa giarra chi tremiat asuta de is peis e parìat chi su ciuff ciuff ddu essi portau in s’orìga.

E diffati ddu portau in s’orìga, ma fut lompiu de palas!

Mesu ammortìa po s’assùstru, ia pensau ca non mi torraìanta is contusu: chi su trenu fut giai a s’anca de Triculi, commenti iat fattu a lompi de s’anca de bidda? Ita brulla fut custa???

Tottu ‘nd’una mi fut subesiu su diciu chi’ia intendiu a pitica, ca su trenu in Lanusè colaìat tres bortas. Ma deu ancora non ci cumprendia nudda. Po unu pagu de ora ia cretiu ca is trenus furint duus, unu ‘essendu e unu calandu e ca si deppìanta pistai a pari ma candu, tottu avolotàda, ddu ia nau a pobiddu miu, si fut apessàu po s’errisu e mi iat nau: -Aisciri funti casi dexi annus chi bivisi a pagus metrus de sa linea de su trenu! Ia pigau una pila e fui andàda finas a su Puléu faendu tottu su giru chi iat fattu su trenu. Ia fattu unu bellu trettu crar’a Triculi fincasa a una galleria.

Bessendu de galleria si torraìat a biri Lanusè, tottu su accu finas a mari, is montis de Baunei e tottu sa costa finas a Cea: cussa fut sa seguda ‘orta chi si biat sa ‘idda. Apustis ca fui lòmpia a cantu mi fui apostàda, ia sighìu a camminai po podi cumprendi aubi podiat essiri su de tres logus de cantu si biat sa bidda e mi fui torrada a agattai crar’ a Triculi. Fattu tottu s’ingiriottu de Pissicuccu, appenas sciaddìa sa contonera, colandu in pissu de su ponti de S’Arcu ‘e Susu, Lanusè e tottu su trettu finasa a mari si torraìat a biri mellus de prima. Fut unu spettaculu chi prenìat is ogrus e su coru. Sighendu a camminai faccas a Perdaleri, colandu bia ‘e su Cramu, is mattas de ilixi e de s’acacia serraìanta su logu e non lassaìnta biri atesu. Deu ia sighìu etottu, ascurtandu su cantigu sonnigrosu de is abis chi bolaìanta a ingiriu de is froris durcis de is mattas frorias.

Fui brexiada de essi cumprendiu eita ingiriotu faìat su trenu, e, grazias a sa “caffettera”, peri de m’essit sapìa de sa bellesa de cussus logus.

De sa dìi, sa “caffetera” est colada atras bortas e in d’ogn’ia bessu a sa ferrovia po dda biri. Su coru miu si ponit a brincai e su nuscu argu de su fumu mi fait torrai pipìa.

Ma brullas, non m’ind’at fattu prusu!

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