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Fabio Fanelli

Fabio Fanelli

Domenica, 07 Dicembre 2014 19:16

Trama di Manta

di Michela Tuligi

Per sessant’anni Ignazio aveva visto sua moglie seduta davanti al telaio, non sbagliava mai.
Ora lei gli porgeva la scatola dei fili e guardandolo con gli occhi stravolti chiedeva a lui, che di trama e di ordito non aveva mai capito nulla, quale filo andasse sotto e quale sopra: «qual è? Non me lo ricordo più».

Martedì, 11 Dicembre 2012 00:56

Sa grutta de Cristoru Locci

di

Alessandro Aresu

 

La seguente storia è stata narrata dalla signora Maria, ottantenne originaria di Lanusei nata da una famiglia molto povera di agricoltori, che già dalla tenera età di dodici anni andava in campagna a lavorare col padre.

La fertile terra ogliastrina alla quale già da piccola si era dovuta strettamente legare, né fa oggi di Maria uno dei testimoni d’eccezione di quel mondo agro-pastorale dove i vecchi racconti di miti, leggende e tradizioni hanno spesso avuto origine e maggiore diffusione.  

Nei primi anni del ‘900 il signor Cristoru Locci, abitante della bella cittadina di Lanusei, dopo esser stato accusato ingiustamente di alcuni furti di bestiame, decideva di salutare moglie e figlia e di darsi alla macchia per sfuggire alla legge. Cristoru trovava allora rifugio in una grotta nella località di Abbavrida, tra il bosco Seleni e il monte Tricoli, a circa un’ora di camminata dal centro abitato.

Egli era uomo capace, non aveva paura della natura selvaggia di Abbavrida, inoltre sapeva cacciare e da quelle parti per sua fortuna i cinghiali e la selvaggina erano in abbondanza! Gli amici fidati e gli allevatori della zona non lo lasciarono da solo, ma gli facevano visita portandogli pane, formaggio o della carne fresca da arrostire. Il dolore per aver abbandonato la sua famiglia era comunque nell’uomo sempre presente, e solo la bellezza della natura circostante e i panorami mozzafiato riuscivano in parte ad attenuarlo.

Il racconto narra che un giorno, un brutto giorno, mentre Cristoru si apprestava ad ammazzare un bue, dopo averlo ben legato alle corna dentro la grotta, non ebbe la freddezza e la precisione di sgozzarlo subito al primo colpo, ma lo feriva soltanto; l’animale inferocito si scagliava allora contro il malcapitato riuscendo a farlo cadere e ad ucciderlo. Nei giorni successivi il cadavere del povero Cristoru Locci veniva trovato all’interno della grotta da alcuni pastori.

Grazie alle indicazioni fornitemi da cacciatori della zona è stato possibile effettuare un sopralluogo nella così chiamata “grutta de Cristoru Locci” e si è scoperto che il bandito non visse in una grotta naturale ma questa risulta essere in realtà un saggio minerario risalente alla prima metà dell’800 dove si era tentato di estrarre argento piombifero.

 

Martedì, 11 Dicembre 2012 00:54

Burriccu

di

Francesco Canu

 

Un vecchio. Era solo un vecchio. Un vecchio con la pelle rugosa, temprata dal vento e bruciata dal sole di innumerevoli giornate passate all'aperto. Un vecchio carico di rancore che aveva passato gran parte della sua vita rintanato in montagna. Come un animale selvaggio. Anzi. Come un animale da soma. Così si era sempre sentito, lavorando dall'alba al tramonto.

“Trabbàllada comente unu burriccu, e d'aèra' puru!”.

Questo è quello che la gente diceva di lui, in paese.

Un vecchio con una famiglia che non vedeva mai. Una moglie. Due figlie. Da quanto non le vedeva? Non aveva tempo. Le capre andavano seguite, non poteva abbandonarle.

Era soltanto un vecchio stanco. E adesso era lì. Immobile. Sull'altopiano di Golgo. Dietro di lui “su Sterru”, la profondissima voragine che si apre nell'altopiano. E davanti ai suoi occhi una leggenda.

Perché di questo si trattava. Perché ne aveva sentito narrare la storia sin da quando era piccolo. Perché nelle lunghe giornate passate con il padre a fare avanti e indietro con le capre sulle montagne, a mungerle e a fare il formaggio, la sera si ritrovavano davanti al fuoco e lui gli raccontava delle storie. E la storia dell'essere che si trovava davanti adesso, l'aveva sentita un milione di volte. Quell'essere mostruoso, che in passato si diceva vivesse da quelle parti, a Golgo, a qualche chilometro da Baunei, terrorizzandone gli abitanti. Lo si descriveva come una sorta di drago, che con uno sguardo poteva uccidere chiunque gli si parasse davanti. Per questo i Baunesi, disperati, si rivolsero a S.Pietro. Ed egli, benevolo come tutti i santi, salì sull'altopiano ed affrontò il mostro. E lo sconfisse. Con un espediente semplicissimo rivoltò il potere del mostro contro di esso. Un piccolo frammento di specchio mise fine alle disgrazie della popolazione baunese. Il mostro scappò via e i baunesi, per ringraziare il santo edificarono a Golgo una chiesa in suo onore. Si ricordava bene quella storia. Perché quando suo padre gliela raccontava, era felice. Perché quelli erano gli unici momenti piacevoli che trascorreva con lui. Suo padre, come lui e più di lui, era “unu burriccu”. Trattava tutti malissimo. E trattava male lui, suo figlio. Gli rispondeva sempre in malo modo e non aveva mai avuto per lui un gesto d'affetto. L'aveva educato secondo le dure regole della montagna. E lui, ancora piccolo e innocente, lo odiava, per questo. Si ripromise che non sarebbe mai diventato come lui, che se mai avesse avuto dei figli li avrebbe trattati con amore. Ma non riuscì a mantenere la promessa. Perché quella montagna inospitale e crudele, che ti consuma dentro, che ti prosciuga l'anima, lo aveva reso esattamente uguale a suo padre: “unu burriccu”.

Che non aveva mai avuto un moto affettuoso verso sua moglie. O verso le sue figlie. Che adesso lo odiavano, probabilmente. E chissà dov'erano, ormai, visto che alla prima occasione si erano sposate ed erano andate via e non le aveva più viste. E questo lo rattristava. Non riusciva più a stare in un posto dove nessuno lo amava. Perciò satava in montagna. Dall'alba al tramonto. Senza sosta. E il suo cuore a mano a mano si induriva. Sempre di più. Sempre più duro.

Sempre più simile a suo padre.

Suo padre. Lo odiava, suo padre. Lo odiava perchè erano uguali.

E in quell'attimo, mentre davanti a lui il mostro si preparava ad attaccarlo, inaspettatamente si ritrovò a pensare alle serate passate davanti al fuoco con lui. Stanco ma felice. In quell'attimoi, inaspettatamente, l'odio svanì.

Gli venne da ridere. Poi pianse. E poi rise ancora. Perché in quell'attimo, mentre lo sguardo del mostro lo uccideva, lo perdonò. E si rese conto di avergli sempre voluto bene. Nonostante tutto.

"Ca fudi unu burriccu. Ma de su restu peri geo..."

Martedì, 11 Dicembre 2012 00:52

Is cogasa

di

Davide Shiavone

 

Il Sole non faceva in tempo a tramontare che le strade erano già deserte e i pochi coraggiosi che ancora gironzolavano per le vie del paese si affrettavano a rientrare a casa. Chiunque sapeva che era meglio non girare la notte per le vie di Perdasdefogu e soprattutto durante particolari notti: le notti di Luna piena!

Con l’ “ingrassare” della Luna cresceva infatti la possibilità di imbattersi in qualche “coga”, una sorta di demone che per sopravvivere succhiava il sangue dal collo dello sventurato che le capitava fra le mani: spesso e volentieri bambini.

“Is cogasa” non vivevano in grotte oscure o in castelli stregati, ma vivevano all’interno del paese, in case normalissime, assieme alla gente comune. Questo perché la gente ignorava la loro identità: esse durante il giorno erano infatti donne normalissime che andavano a fare la spesa al mercato o che lavavano i panni al fiume come tutte le altre donne, ma che comunque erano sempre in cerca della prossima vittima.

Certo, la gente del paese aveva dei sospetti su chi potessero essere, ma erano delle semplici idee che non avevano mai avuto alcun riscontro fino a quando in paese non giunse un anziano uomo di Osini: ziu Giuanni.

Egli conosceva bene il problema poiché a suo tempo anche Osini era stata infestata da “is cogasa” e sapeva che questi demoni erano capaci di trasformarsi in gatti, facilmente riconoscibili per il colore grigio scuro.

Fu così che per le strade foghesine iniziò una vera e propria caccia al gatto grigio: i gatti non venivano uccisi ma semplicemente bastonati sul muso in modo che una volta ritrasformatisi in donne esse avessero i segni dei colpi sul viso. Ai primi sospetti seguirono le prime accuse, ma ciò non bastava come prova, serviva qualcosa che rendesse palese la reale identità de “is cogasa”.

Ziu Giuanni aggiunse che, per oscuri motivi, la notte tra l’ultimo giorno di Febbraio e il primo di Marzo, “is cogasa rimanevano come paralizzate davanti a “unu tremini” (treppiedi) girato al contrario.

L’anno non era bisestile e il 28 Febbraio, tutte le donne del paese furono riunite in piazza di chiesa e costrette ad aspettare la notte. Calarono le tenebre e l’allora sindaco portò un trepiedi che fu messo al contrario in mezzo alla piazza. Fu allora che si scoprì la reale identità dei demoni: all’ordine di lasciare la piazza non tutte le donne poterono muoversi, alcune restarono lì come immobilizzate. Tra di esse vi erano nomi importanti come la moglie del dottore zia Consola, la moglie del maresciallo zia Bastiana e l’insospettabile perpetua zia Mimmina. Esse furono allontanate dal paese e affidate a un esorcista.

Ancora oggi nelle strade foghesine i gatti grigi vengono guardati con sospetto e la notte a cavallo tra Febbraio e Marzo si usa mettere davanti alla porta “su tremini” girato al contrario.

C’è chi dice che questa sia una storia vera e chi dice che questa sia solo una simpatica leggenda. Io per sicurezza il 28 o il 29 Febbraio “su tremini” girato davanti alla porta lo metto!

Martedì, 11 Dicembre 2012 00:50

L’uomo e l’aquila

di

Emiliano Manca

 

“Abbìla, abbìla,

a pes tira-tira,

a pes ti pongio a modde.

E ti facas de fodde,

de fodde ‘e orciada.

Bai in ora mala!”

La voce di tziu Sidoru è stentorea. I suoi piedi affondano nell’acqua del torrente, il suo sguardo è rivolto all’aurora, le sue mani strigono una fascina. Il bambino non dovrebbe udire le parole della formula. Accovacciato dietro la roccia grigia, cerca di cogliere i versi che presto l’anziano pastore tramanderà ad un altro uomo della famiglia, perché prenda il suo posto quando non ci sarà più. Gli hanno detto che se viene ascoltata da chi non è destinato a conoscerla, quella formula perde la sua efficacia e non riesce ad incantare l’aquila che razzia gli agnelli del gregge. Ma lui non si è fidato, e per avere la certezza che il suo piano riuscisse ha voluto alterare anche un’altra parte del rito: spera che tziu Sidoru non si accorga del geco morto che lui ha nascosto dentro la fascina prima che l’uomo la portasse con sé al ruscello.

È stato tre giorni fa, al tramonto. Sua madre l’aveva mandato nella legnaia a prendere un ceppo per il camino e, appena messo piede in cortile, ha scorto qualcosa che si agitava in mezzo allo spiazzo di terra. Avvicinandosi, ha raccolto un aquilotto spaurito. Non sa come potesse essere capitato lì. Forse un falco o un corvo l’aveva rapito dal nido e poi gli era scivolato dagli artigli. Non era ferito, ma tremava e sembrava affamato. L’ha accudito, nutrito, sistemato al caldo per la notte dietro la legnaia. Non ha detto niente in casa: sapeva che non gli avrebbero mai permesso di tenerlo. La nottata è trascorsa insonne, per la paura che qualcuno udisse il pigolare disperato dell’uccellino. All’alba del giorno dopo, lui è stato il primo ad alzarsi.

Sulla soglia del cortile è rimasto a bocca aperta.

Un’enorme aquila posava sulla legnaia e lo fissava. Era lì come lo stesse aspettando, serena e silenziosa, con il piccolo in mezzo alle forti zampe. Lui ne ha retto lo sguardo, stranamente non impaurito. E l’aquila gli ha parlato.

-Hai accolto mio figlio, come posso sdebitarmi con te?-.

La sua voce era fredda e lontana come il vento sulle creste. Il bambino non riusciva a muovere un muscolo, ad articolare un suono. Ma lo sguardo dell’aquila lo ha rassicurato.

-Perché porti via gli agnelli?-

-Perché devo mangiare, e dare da mangiare ai miei piccoli-.

-Non potete mangiare qualcos’altro?-

-E voi non potete?-

-Noi?-

-Non vi piace che mangiamo gli agnelli perché volete mangiarli voi…-

-Ma sono nostri!-

-Vostri? E chi ve li ha dati?-

Non si sarebbe mai aspettato una domanda simile.

-Non lo so…-

-Allora te lo dico io, cucciolo d’uomo. Noi aquile voliamo su queste terre da prima che la tua gente le occupasse. La terra non era di nessuno, e voi l’avete recintata. Le piante non erano di nessuno, e voi le avete sradicate per costruire le vostre case. Gli animali non erano di nessuno, e voi li avete catturati, rinchiusi, cacciati, macellati. Ogni cento agnelli ammazzati dall’uomo ce n’è uno rapito dalle aquile. Certo che potremmo smettere di rapirli, ma perché dovremmo?-

Il bambino è rimasto senza risposte. E senza domande.

-Stammi a sentire, cucciolo d’uomo. Tu hai trattato bene mio figlio ed io tratterò bene te. Da oggi non rapirò più gli agnelli della tua famiglia. Ma questo patto tra noi deve durare. C’è una formula che la tua gente recita contro di noi, per impedirci di calare sulle vostre greggi. Ma ogni volta che la magia ci colpisce, noi non possiamo volare per giorni, e i nostri piccoli muoiono di fame. Allora il patto che ti propongo è questo: io risparmierò il vostro gregge fra tutti e dirò alle altre aquile di fare lo stesso. In cambio, tu impedirai che la formula sia usata dalla tua famiglia contro di noi-.

Il bambino ha accettato e l’aquila si è alzata in volo senza più una parola, portandosi via l’aquilotto.

Mentre tziu Sidoru termina di recitare i versi e si incammina verso l’ovile, il bambino si appiattisce contro il granito e trattiene il respiro.

Molti anni dopo, un uomo siede su una pietra in mezzo alla campagna e guarda pascolare davanti a sé l’enorme gregge che ha ereditato. Ha ancora un ricordo vivido di quella mattina al torrente con l’anziano che recitava la formula, ignaro della sua inutilità. Il petto gli si gonfia d’orgoglio, come ogni volta in cui cerca invano di contare i suoi capi e si arrende, mentre la macchia bianca di lana si perde alla vista come un orizzonte remoto.

Di anno in anno, gli stratagemmi per rendere inefficace la formula sono cambiati, ma hanno funzionato sempre. Il gregge della sua famiglia è stato risparmiato dalle aquile, divenendo il più grande delle valli circostanti. Gli altri ovili sono invece falcidiati dai rapaci ogni volta che le pecore partoriscono. La fama dell’enorme gregge che non subisce perdite si è sparsa in tutta l’Ogliastra, fino alle Barbagie ed anche oltre.

L’uomo avverte un tocco freddo sulla nuca. Lentamente, alza le mani e si leva in piedi. Il forsetiero alle sue spalle non dice una parola e non gli permette di girarsi, continuando a premere la canna del fucile contro la pelle. Non può vedere il suo volto. Cerca allora di aguzzare lo sguardo per riconoscere almeno uno dei due complici che escono dai cespugli e iniziano a catturare gli agnelli. Ma sono le prime luci dell’alba, e gli uomini stanno mettendo le mani sui capi più lontani del gregge immenso.

Quando la razzia si conclude, i forestieri hanno riempito due carri enormi. Sente il colpo secco del calcio del fucile contro la sua testa, e la coscienza che lentamente scivola via.

Quando rinviene, il sole è alto. La sua testa vortica e pulsa. Lo sguardo fatica ancora a snebbiarsi. All’inizio non ricorda, poi la disperazione lo assale e lui scatta in piedi nonostante il dolore. Ha il cuore in gola mentre lascia vagare lo sguardo davanti a sé. Ma il gregge pare ancora sterminato, come nulla fosse accaduto. Sulle prime pensa di avere sognato, ma il capogiro lo smentisce.

Allora sorride amaro: tanto grande è diventato quel gregge, che nemmeno una razzia come quella lo ridimensiona. Chissà allora quante ancora ne subirà…

Il cielo è limpido, solcato da un’aquila.

Martedì, 11 Dicembre 2012 00:47

La vendetta di Martiperra

di

Manca Emiliano

 

Nel 1873, in una località imprecisata dell’Ogliastra, avvenne un fatto di sangue molto diverso da quelli che alimentano le leggende su banditi e disamistades. All’epoca, l’episodio fece scalpore, attirando sulla piccola comunità l’attenzione dell’intera Sardegna. Ma via via che emergevano i tratti della vicenda, un tacito accordo unì Capo di Sopra e Capo di Sotto nello stendere sui fatti e sui loro anonimi protagonisti una cappa di oblio durata fino ad oggi. Il resoconto che segue è ispirato a quel poco che resta del verbale del processo.

-Signor Giudice, lo so che i testimoni sono tutti contro di me, ma sto dicendo la verità. Mi accusano perché ho lavorato l’ultimo giorno del carnevale, quando non si deve. Dicono che l’ho fatto per rovinare la festa a tutto il paese, ma non è vero. Vogliono punirmi perché dicono che se qualcuno lavora quel giorno il cielo non dà acqua e i campi non dànno raccolto. Ma glielo giuro, signor Giudice, io volevo rispettare la tradizione, solo che non ho potuto. Lei ha figli? Io lo so che anche lei ha figli, signor Giudice. E allora, si metta al mio posto! Non fa di tutto per dare da mangiare ai suoi figli? Se si ammalano, non fa di tutto perché guariscano? E io così ho fatto. Mio marito è morto l’anno passato, e mi ha lasciata con sette figli. Uno solo era grande abbastanza per lavorare, e ha preso il posto di suo padre in campagna. Ma pochi giorni prima di carnevale si è ammalato. Non poteva alzarsi dal letto. Lei che cosa fa, signor Giudice, se le succede una cosa come questa? Non ci va a lavorare al posto di suo figlio per tutta la famiglia? Non lavora per comprare le medicine che servono a guarirlo? E io così ho fatto. Sono andata a pulire in casa dello Straniero, quella in fondo al paese. Lo so che cosa dicono i testimoni… che non era per pulire che ci andavo. Ma, signor giudice, mi guardi! Le sembro una che fa di queste cose con il marito morto da poco? Le sembro una che cerca uomini mentre i suoi figli sono senza mangiare? Io andavo dallo Straniero a pulire, cucinare, dare da mangiare agli animali, e quando imbruniva tornavo dai miei figli. Il martedì di carnevale lui mi ha detto di andare a lavorare a casa sua. Che cosa ci posso fare io se lui non è di qua e dalle sue parti a carnevale lavorano tutti? Ho provato a dirglielo che qui non è così, ma lui si è messo a ridere. Diceva che sono cose da ignoranti, che il cielo non guarda quello che facciamo noi per decidere di dare acqua alla campagna. E mi ha detto o vieni martedì o non venire più e chiamo un’altra. Lei che cosa fa se le dicono così, signor Giudice? Non ci va a lavorare per suo figlio malato? E io così ho fatto. E i testimoni dicono che l’ho fatto apposta, che non me ne importava di lui perché non era figlio mio. È vero che è nato dalla prima moglie di mio marito, ma quella povera donna è morta mettendolo al mondo e lui non l’ha mai conosciuta. Io l’ho tenuto in braccio da quando è nato, da quando gli facevo da balia. Gli ho voluto bene da subito, signor Giudice, come a un figlio mio. E dopo che sono diventata la moglie di suo padre e sono nati gli altri sei, lui li ha trattati sempre come suoi fratelli. E quando mio marito è morto ha lavorato per loro e loro gli volevano bene. E i testimoni dicono che lo odiavo, che si è ammalato perché l’ho avvelenato io, ma io neanche lo so come si avvelena un cristiano, signor Giudice! Dicono che lo odiavo perché non era mio figlio davvero e che l’ho avvelenato perché non mi faceva andare dallo Straniero. Ma queste sono bugie di quelli che mi odiano. Lui non pensava queste cose, signor Giudice, lui sapeva che gli volevo bene. È vero che non era d’accordo a andare dallo Straniero, ma solo perché aveva paura di quello che poteva dire la gente in paese… e aveva ragione, lo dovevo ascoltare! Ma come fanno a dire che l’ho avvelenato?! Come si permettono di accusarmi di avere ammazzato mio figlio mentre sto portando il lutto per la sua morte? Non hanno pietà, signor Giudice! E poi mio figlio non è morto avvelenato… la polizia ha detto che l’hanno ammazzato a coltello, ma non è vero neanche questo. Il coltello non l’ha trovato nessuno, e dicono che l’ho nascosto io. Dicono che ho usato il coltello perché lui si era accorto che lo avevo avvelenato e voleva fuggire di casa e raccontare tutto mentre ero dallo Straniero. Ma un coltello con una lama come quella non lo troverà mai nessuno, signor Giudice! Non lo troveranno perché non c’è. Mio figlio non l’ha ucciso un coltello. Mi ascolti, signor Giudice, che gliela racconto io la storia vera.

Quel giorno, il martedì di carnevale, stavo andando dallo Straniero come lui mi aveva detto. Quando sono arrivata al portale del cortile, l’ho trovato aperto come sempre. Ma sulla soglia c’era un gatto nero seduto, grande come un bambino di dieci anni. Stava lì e mi guardava con occhi gialli. Si può immaginare, signor Giudice, lo spavento che mi ha preso. Dicono che un gatto nero è il demonio. Allora ho stretto forte il crocifisso che porto sempre al collo e ho gridato alla bestia di andare via. E la bestia mi ha risposto così:

“No mi neris cattò,

ca Martiperra sò,

ca seu Martiberri

benniu po ti ferri!”

Io ho recitato un Padrenostro e quel demonio è scomparso. Non ho raccontato a nessuno quello che mi era successo. Ho lavorato per tutto il martedì e sono tornata a casa. E quando sono entrata nella stanza dove coricava mio figlio, l’ho trovato morto, con quegli squarci e il sangue tutto intorno sul letto. I bambini non si erano accorti di niente. Non avevano visto nessuno. Lo so che cosa dicono i testimoni: che hanno visto tutto e non raccontano niente perché gliel’ho detto io. Sono cattiverie, signor Giudice, cattiverie di persone che mi odiano da quando è morta la prima moglie di mio marito. Anche di avere ammazzato lei mi accusano... magari perfino di avere ucciso lui! Ma io sono una madre, signor Giudice, e una madre fa di tutto per la vita dei suoi figli, non per la loro morte. E io così ho fatto. Mio figlio l’ha ucciso Martiperra, per punire me che lavoravo il martedì di carnevale. La sua morte è colpa mia, questo è vero, ma non l’ho ucciso io. Se non crede a quello che ho raccontato, signor Giudice, chieda ai poliziotti che hanno visto il corpo di mio figlio. Chieda a loro se gli squarci nel suo ventre somigliavano a ferite da coltello o a graffi di gatto. Chieda, signor Giudice!-

La donna fu condannata per l’omicidio. Non risulta se i poliziotti siano stati interpellati circa l’aspetto degli squarci sul ventre del ragazzo.

Martedì, 11 Dicembre 2012 00:45

‘Entu Marigosu

di

Denise Fadda

«Ero un cavallo agile e forte lo sai?», disse fieramente ‘Entu al nuovo arrivato. «Quando ero giovane, ti avrei potuto uccidere con un calcio solo!» Il cane, a quest’ultima frase del cavallo, fece un balzo e mostrò i denti in segno di minaccia. «Hei, ma che intenzioni hai? » Gli disse. Spero che tu non riesca più a sollevarle quelle zampacce. Se permetti, mi sto appena affacciando alla vita, e vorrei morire in modo eroico, non schiacciato sotto il peso dei tuoi zoccoli».

«Stupido cane!», mormorò il cavallo. «Non ho cattive intenzioni e ti consiglio di tenertela stretta la tua giovane pelliccia. Che significa, poi, morire in maniera eroica?»

«Beh, rispose il cane, dandosi un tono. Sarei un eroe, se cadessi in un dirupo per salvare una pecora!» L’anziano sauro non riuscì a trattenere una fragorosa risata. «Sei proprio un pivellino!», gli disse ancora divertito.

E il nuovo arrivato, ignorando l’offesa e parlandogli quasi sopra, rispose: «Se proprio dobbiamo diventare amici, visto che condivideremo gli stessi spazi, sappi che non sono un ‘pivellino’, ma una ‘pivellina’. Mi chiamo Marigosa, o meglio questo è il nome che mi ha dato il tuo padrone. E tu?»

«Io mi chiamo ‘Entu.»

«Piacere!», disse la cagnetta mettendosi a pancia all’aria. Era stremata per il viaggio perché avevano percorso parecchi chilometri, e affranta per quello che era successo. Aveva perso il suo padrone! Avrebbe voluto fare al cavallo mille domande per sapere dove si trovasse, e dividere con lui il suo pesante fardello, ma non era ancora pronta per parlare del suo immenso dolore con ‘Entu, che per lei era e sarebbe potuto rimanere un perfetto estraneo. Quel cavallo, dalle piccole orecchie, e dagli occhi grandi ed intensi, però, le ispirava fiducia. Non le interessava, invece, sapere come fosse il suo nuovo padrone. Lei pensava che mai e poi mai, nella sua vita, ce ne sarebbe stato un altro. Avrebbe voluto dirlo al cavallo: «Noi cani scegliamo un solo padrone ed è per sempre. Me lo hanno ucciso. Non appena avrò capito come muovermi, lo vendicherò. Altro che morire per salvare una pecora!» Anche ‘Entu, dal canto suo, studiava la nuova arrivata. Era felice, perché, finalmente, avrebbe potuto condividere i suoi pensieri con qualcuno, che, come lui, aveva con gli uomini un rapporto speciale. Marigosa non era come gli altri animali. Era vissuta a stretto contatto col suo padrone, sapeva dell’uomo più di quanto avrebbe saputo dirgli un gregge intero. Passarono i giorni e le settimane, e intanto Marigosedda ed ‘Entu erano diventati inseparabili. Il bel sauro usciva sempre più di rado, ma non pareva soffrirne particolarmente. Il suo padrone gli faceva spesso visita, e ci pensava Marigosedda, con i suoi racconti, a farlo scalpitare. Ogni giorno era un’avventura! Nei confronti del pastore, invece, Marigosa, provava dei sentimenti contrastanti. Avvertiva che c’era qualcosa in lui che lo faceva tremendamente soffrire, e quando i loro sguardi si incrociavano, lui distoglieva subito il suo, per dirigerlo altrove. Comunque, le sembrava contento di lei. E lei, che la conduzione delle greggi ce l’aveva nel DNA, aveva solo fatto appello al suo istinto. Ogni tanto il ricordo del suo padrone pervadeva il suo animo di un’intensa tristezza. Le mancava, eccome se le mancava.

Fu per la prima nevicata che ‘Entu si confidò con la sua amica. Iniziò dicendole, che lui godeva di una reverenza e di un rispetto da parte del suo padrone, e di tutti gli altri uomini, di cui nessun altro animale avrebbe potuto godere. Si diceva, infatti, che l’uomo che avesse osato uccidere un cavallo, sarebbe a sua volta morto ‘de morti mala’. Ed in effetti queste parole non sorpresero Marigosedda che si era accorta del rispetto che il pastore nutriva per il suo sauro. Però pensava che fosse normale. Anche il suo padrone l’aveva sempre rispettata. Quello che, però, Marigosedda non sapeva, era dei talenti che ‘Entu possedeva. Tra i tanti prodigi che era in grado di fare, c’era quello di poter vedere i morti. «Vedo i morti!», le disse, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Marigosedda rimase di sale. La notizia la sorprese, ma nonostante lo sbigottimento iniziale, non si fece sfuggire l’occasione: «Mi devi aiutare!», gli disse. «Io devo assolutamente rivedere il mio padrone. E’ stato ucciso, e io devo sapere da chi, per vendicarlo!» Era una necessità a cui Marigosa non poteva sfuggire, c’era in ballo la stessa sopravvivenza della famiglia dalla quale era stata strappata via. ‘Entu rimase sorpreso dalla determinazione della sua amica. I discorsi, poi, sulla vendetta, li conosceva bene. Una fucilata era sempre pronta per chi aveva il vizio del “furari figu ‘e monte.” E di morti ammazzati, vagare per i boschi, ne aveva visto tanti. Guardò Marigosa negli occhi e le disse che lui non poteva vedere tutti i morti, ma solo quelli morti ‘a balla!’ E poi il suo padrone, come tutti gli uomini, del resto, temeva quei boschi! «Si giustificano dicendo che siamo noi cavalli a non volerci passare, ma in realtà sono loro, che trasmettendoci le loro paure, ci costringono a tornare indietro. Cavaliere e cavallo diventano un tutt’uno! Come è morto il tuo padrone?», glielo chiese con un filo di voce, mentre il dolore della sua Marigosedda diventava sempre più palpabile. Fu allora che la cagnetta gli espose il suo piano, rivelandogli che il suo padrone era stato ucciso in un agguato, proprio da una fucilata. «Devo vendicare il mio padrone, prima che lo faccia uno della mia famiglia.», sbottò Marigosedda. ‘Entu non capiva. «Come fai a non capire!», disse stizzita lei. Se io riuscirò nella mia impresa, nessun altro morirà, e la mia famiglia vivrà come viveva prima: con onore». Visto il nobile proposito, e allietato dal fatto che non avrebbe più visto quel bosco infestato da tutti quei morti, decise di aiutare la sua amica. «Venerdì sarò cavalcato. Anche se il mio padrone prenderà il solito percorso, io non gli ubbidirò e mi recherò proprio nel punto dove ci sono quelle povere anime. Cerca di essere là, prima di noi! Non dovresti incontrare difficoltà: da su Passu Malu devi deviare verso Pizzu Margini e Pubusa e da lì arrivare al Tonnéri. Quando vedrai il bosco farsi sempre più fitto, non farti ingannare dal frusciare delle fronde di quei lecci e di quei frassini ammaliatori. Affina il tuo udito e individua il fiume che scorre lì vicino. Spero che tu sia in grado di ignorare le provocazioni dei gatti selvatici! Vivono in quei boschi da tempo immemore, se dovessi perderti, il loro aiuto sarebbe fondamentale!» Marigosedda accettò la cosa. Aveva forse scelta? Arrivò il venerdì e lei era pura elettricità. Avrebbe presto saputo il nome di chi l’aveva privata della sua gioia più grande. Quando arrivò sul posto designato, senza dover, fortunatamente, ricorrere, all’aiuto di nessun gatto, ‘Entu ed il suo padrone erano già lì! Le bastò uno sguardo per capire che quello era un luogo a lei familiare e che il suo amico aveva dovuto lottare per portare lì il pastore. Quest’ultimo era, infatti, terrorizzato e quando ‘Entu aveva iniziato a disobbedirgli, intuendo dove lo stesse portando, lui si era ribellato colpendolo con una furia cieca. Intanto nella mente di Marigosedda i ricordi iniziarono a fluire e non tardò a capire che l’assassino del suo padrone ce lo aveva sempre avuto davanti agli occhi. Ecco perché era finita in quell’ovile. Oramai il pastore aveva completamente perso il senno. Urlava pietà. Chiedeva che gli venisse risparmiata la vita. Poteva vedere lo spirito dell’uomo che aveva ucciso, dell’uomo a cui aveva tolto l’azzurro del cielo e la lucentezza delle stelle. Accadde tutto in una frazione di secondo. Decise di fuggire a piedi, e scendendo da cavallo cadde rovinosamente, battendo la testa. Anche ‘Entu aveva capito. E non poteva crederci. Giustizia era stata fatta, e quando vide il suo amato padrone, a terra, esangue, si sentì pervadere da un opprimente senso di solitudine. La stessa, che affliggeva la sua amica.

Sabato, 08 Dicembre 2012 11:31

Is Culurgionis Coloraus

di

Bentudesusu

 

Is culurgionis coloraus

de su monti funti calaus.

Ballus, cantus e festa manna

po tottu sa dii de Sant’Anna.

Giuanneddu s’est accuau

cun prattus prenus e a’ papau.

Ma a sa bell’ora ‘e mesunotti

ad’intendiu una punta e brenti.

Sa mamma d’a pregontau:

“Cantus culurgionis as papau?”.

“Mammài, furinti bonus aberu,

una trentina de seguru!”.

“Figgiu, ci funti modus e maneras!

Deu nau solu ca aicci imparas!”.

Sabato, 08 Dicembre 2012 11:24

La leggenda del Trenino Verde

di

Anastasia Agus

 

Il Fly-bus procedeva velocemente, mentre stavo poggiata al sedile e guardavo il mondo là fuori. Il mezzo sfrecciava tra i palazzi, l’enorme serpente volante frenava la sua corsa ad ogni fermata, mentre decine di passeggeri scendevano dal mezzo e altre decine prendevano posto. Ogni mattina, mentre mi recavo a lavoro mi divertivo a guardare i volti dei passeggeri che casualmente si sedevano di fronte a me e provavo ad immaginare le loro vite. Quella mattina mi si sedette davanti una vecchina, curva sulla schiena. Aveva capelli bianchi raccolti in una lunga treccia, lunga a tal punto da sfiorarle le ginocchia, sul viso gli anni erano scavati in profonde rughe che le ricamavano l’intero volto. Guardavo quel viso e provavo ad immaginare la sua infanzia e i suoi giochi di un tempo passato. I miei pensieri furono disturbati dal rumore metallico dell’altoparlante che annunciava il nome della fermata. Ecco, Piazza Fortuna. Scesi dal mezzo, ma nella mia mente tenevo ferma l’immagine della vecchina.

Davanti a me si stagliava nel cielo il palazzo che ospitava la clinica di ibernazione in cui lavoravo, in cui ero primaria. Attraverso l’ibernazione cercavamo di salvare vite umane, di salvare persone per le quali non esisteva al momento una cura, con la speranza che durante gli anni di ibernazione la tecnologia medica facesse dei passi avanti, tali da curare malattie prima impensabili da curare.

Quella mattina il mio staff mi rendeva noto che la paziente 0036 poteva essere operata e quindi che avremmo dovuto procedere con lo sbrinamento.

Il momento dello sbrinamento per me era sempre molto emozionante. Il cuore ricominciava a battere e il sangue tornava ad irrorare le vene e ogni singolo capillare. La vita ripartiva.

Camice, guanti e mascherina pronta per entrare in sala, solo quattro ore per riportare in vita la paziente 0036. Dopo un estenuante procedura di sbrinamento la signora ormai ottantenne era capace di respirare autonomamente e di svolgere tutte le funzioni vitali e fisiologiche in modo completo.

Andai dalla paziente per informarla che presto sarebbe stata sottoposta alla cura che tanto aveva desiderato, ma non mi aspettavo che quel giorno la mia vita cambiasse.

Mi raccontò che lei visse in prima persona la rivoluzione del 2016, nonostante avesse solo otto anni, ricordava esattamente il modo in cui cercarono di distruggere il mondo così come lo conoscevano fino ad allora e cercarono di imporre il nuovo mondo così come lo conoscevo io. Nel 2016 il fronte sud- orientale in accordo con il fronte nord-occidentale ribaltò la società civile imponendo un nuovo stile di vita. Il futuro, dicevano, è la miglior soluzione. Distrussero ogni cosa che ricordasse il passato e imposero una lingua unificata. Il 2016 segnò il passaggio ad un nuovo mondo dove non vi era più traccia di quello che fu il passato.

Nessuno sembrava più ricordare le vite dei propri avi, si era innescato un oblio generale, nessuno più ricordava come si vivesse prima del 2016.

La paziente 0036 invece ricordava, credo che fosse l’unica persona al mondo a ricordare, tanto che iniziò a raccontami un storia.

Diceva che un tempo i Fly-bus si chiamavano treni e che non sfrecciassero nei cieli ma bensì sulla terra. Io rimasi sbalordita da tale notizia, inoltre mi disse che uno di questi treni era molto conosciuto e famoso. Gli abitanti dell’Ogliastra lo chiamavano Trenino Verde. Incredula mi feci raccontare quante più cose ricordasse.

Decisi di andare alla ricerca del trenino, anche se trovarlo sarebbe stato molto difficile.

Attraverso il racconto di Antonia, la paziente 0036, riuscì a localizzare il posto di quella che un tempo era la stazione dei cosiddetti treni.

Per riuscire ad arrivare ai binari dovetti percorrere un lungo tratto scosceso e addentrarmi in un anfratto roccioso. Quello che si spalancò di fronte ai miei occhi era incredibile. Una città sotterranea prendeva forma, le case erano diroccate, i binari divelti, le strade distrutte, ma nonostante i segni della rivoluzione la città era lì. Maestosa si stagliava di fronte ai miei occhi. Rimasi per alcuni secondi senza fiato, incredula, ma felice.

Antonia aveva ragione, mentre io ero stata molto più scettica, tanto da credere che ciò che mi raccontava fosse solo una legenda.

Invece ecco che con estrema emozione mi trovai di fronte alla locomotiva. Nera, imponente testimone di un antico passato. Il Trenino Verde era lì, esisteva davvero, ma nessuno sembrava ricordarlo. Nessuno ricordava la locomotiva nera alimentata a carbone, nessuno ricordava i suoi percorsi attraverso le foreste lussureggianti, nessuno aveva memoria del passato. Lentamente la mano scivolava sopra il metallo, accarezzavo la locomotiva e piano piano con le dita toccavo il legno della carrozza. Niente fino ad allora era stato più concreto, più presente e più vero di quel ferro e di quel legno.

Decisi di risalire immediatamente in superficie, ma determinata a non raccontare ad anima viva ciò che i mie occhi videro.

Se il fronte sud-orientale avesse scoperto il mio segreto avrebbero distrutto anche quel piccolo rimasuglio di passato che era scampato alla rivoluzione.

Il giorno seguente sul Fly-bus rincontrai la vecchina dalla lunga treccia e in modo cortese le rivolsi la parola: «Buongiorno signora,mi scusi se la disturbo, ma volevo sapere se lei conosce la leggenda del Trenino Verde». Lei mi rispose silenziosamente e col capo fece cenno di no. A quel punto capii che non potevo diventare a mia volta una vecchina smemorata e decisi di tramandare in qualche modo la storia del Trenino Verde.

Arrivata alla clinica mi precipitai nella stanza della 0036, la vidi distesa nel letto, le presi la mano e le raccontai in un soffio ciò che avevo visto. Avrei voluto che mi raccontasse altre storie del passato, ma sentivo la sua stretta debole. Dopo poche ore Antonia era deceduta, la cura non ebbe effetto.

Sconvolta per la morte di Antonia mi rintanai nel mio ufficio e per giorni non toccai cibo.

Dovevo far conoscere la storia del trenino verde, ma senza svelare il luogo in cui si trovava e soprattutto il fatto che esistesse realmente. Studiai un piano. Decisi di raccontare la storia del Trenino Verde a chi stava per essere ibernato, in questo modo avrebbe custodito per diversi anni il segreto e al momento dello sbrinamento avrebbe potuto raccontarla sotto forma di leggenda. Il paziente 0328 sarebbe dovuto essere ibernato nel pomeriggio, decisi di andare a raccontargli la leggenda. Il Trenino Verde non era solo un mezzo di locomozione, ma poteva portare le persone in altri mondi, portava le persone in posti ricoperti da foreste rigogliose, specchi d’acqua fresca, cascate e fiumi. Gli animali in quei mondi non temevano l’uomo e tutto cresceva in armonia. Il Trenino Verde era una possente locomotiva con attaccate lucenti carrozze di legno, regno dei giochi dei bambini, spettatore artificiale del tempo che scorre. Il paziente 0328 sorrise e lentamente si addormentò, ibernato.

Raccontai la stessa leggenda a centinaia di pazienti sicura che una volta risvegliati l’avrebbero raccontata ai propri familiari, in questo modo la leggenda del Trenino Verde si sarebbe diffusa.

Ciò che i pazienti credevano fosse solo leggenda, era invece realtà. Ma cosa c’è di più vero e reale di una leggenda che viene tramandata di persona in persona?da nonna a nipote? Ogni leggenda custodisce verità del passato e a me piace immaginare che un giorno il Trenino Verde tornerà a sfrecciare per i verdi boschi d’Ogliastra.

Venerdì, 07 Dicembre 2012 00:03

Tra Suocera e Nuora

di

Agostina Usai

 

La vecchia Pierina, con la mente rivolta al passato raccontava e la giovane Agata ascoltava senza perdere un accento, un'espressione, un movimento che ella coglieva in quel viso ancora roseo seppure grinzoso, in quegli occhi grigi appannati dall'avanzata cataratta. Pierina si muoveva nella comoda sedia dai braccioli in legno. Per Agata tutto era fuori posto, sgradevole, scostante, a cominciare dalla persona che occupava quella sedia ed avrebbe voluto essere lontana, in spiagge deserte in compagnia dell'uomo amato da entrambe, generato e cresciuto dalla vecchia ma da ambedue conteso nell'affetto, nelle attenzioni, nella presenza e nei pensieri. Paolo, alto, bruno di capelli per quel tanto che la precoce calvizie aveva risparmiato, era di indole docile, amante della serena tranquillità per cui si adoperava in ogni modo e si arrabattava per questo, giustificando ora l'una ora l'altra, sballottato nelle frequenti a volte mute lotte, fra le due donne della sua vita. In quel momento egli era assente materialmente, ma come sempre presente nell'inconscio delle due ed agiva da spinta aggressiva maggiormente in Agata che sentiva Pierina più sicura di sè per il vantaggio che la natura stessa aveva determinato. Ad Agata non rimaneva che trovare i nei nell'altra, i punti negativi su cui rivalersi per superare quello scoglio primordiale, e quindi, la scrutava intensamente quasi volesse ingerire ogni ansimo ed ogni movimento del viso, per poterlo rimuginare in seguito in solitudine e accentuare gli aspetti salienti su cui basare la sua arringa accusativa e guadagnare spazio nel cuore dell'uomo che l'aveva scelta come compagna di vita. La vecchia raccontava: <<Io e mio marito possedevamo diciassette pecore, provenivano dalla matrice che aveva fruttato nel tempo e che ci era stata regalata da mio zio per le nostre nozze. Avevamo anche un servo pastore, un buon figliolo di sedici anni: Carmine. Gli demmo modo di lavorare affinché potesse nutrire i suoi tre fratellini con il latte e formaggio da noi dati in retribuzione. Era necessario a casa di sua madre come l'aria che quei cinque respiravano, perché quel mascalzone di suo padre aveva abbandonato loro per correre dietro ad una spudorata di passaggio.>> Pierina alzava ogni tanto le sopraciglia e vedendo il grande interesse di Agata continuava: <<Carmine era ligio al dovere, pur essendo figlio di un simile padre era profondamente onesto. Ricordo come se fosse ora quando lo vedemmo entrare da questa porta, pallido ed agitato.>> La vecchia sembrava impersonare il ragazzo e assumeva negli occhi appannati uno slancio di vita, poi agitando le braccia tornava in se stessa allo stato precedente, mutando espressione: <<"Le pecore! Mi hanno legato mani e piedi e mi hanno rubato le pecore!" Ci aveva detto. Povero ragazzo, era mortificato come se egli stesso fosse stato la causa del misfatto. Certo che il figlio di Rosina Peranu, in quel momento, doveva avere tutt'altra emozione nel cuore mentre andava a nascondere, al monte dietro la chiesa dei SS. Cosma e Damiano, le bestie rubate.>>.

Agata ascoltava attentamente e chiese: <<Questo figlio di Rosina Peranu era giovane anch'egli?>> La suocera girando all'ingiù gli angoli della bocca e indignando lo sguardo rispose:

<<Aveva venticinque anni, uomo delinquente che altro non era. E' andato a danneggiare un ragazzo di sedici. Anch'egli era orfano ma la madre non è stata capace di insegnargli a mantenersi onesto nel lavoro. Anzichè adoperarsi per latte e formaggio, nel colpo di una notte, ha procurato ai fratelli carne e lana, sottraendoli ad altri.>>

Agata pensava al giovane uomo privo di insegnamento migliore ed essendo ella stessa madre di un ragazzo, vedeva gli altri due al pari del suo come se fossero tornati indietro nel tempo, tutti e tre neonati, bisognosi del latte materno ma anche di effusioni e di parole. Ella li accarezzava col pensiero come se stessero tutti nella stessa culla e osservava Pierina che le appariva dall'altro lato di un fosso profondo e non lontana da lei soltanto ad un metro di pavimento, mentre costei cupa, continuava: <<Comunque, il diavolo come sempre fa le pentole e dimentica di fare i coperchi ed anche allora si è potuti arrivare a Simore Trassa, il figlio di Rosina, appunto.>> Nel dire le ultime parole Pierina batté il palmo della mano destra sul ginocchio, con lo sguardo e le labbra ridenti di soddisfazione perché il destino aveva ripagato il colpevole.

<<Com'è che l'hanno identificato? E' stato Carmine a vederlo?>> Chiese Agata che, pur di scagliarsi in qualche modo contro la sua rivale, stava sulla difensiva e prendeva la tutela di Simone cercando di trovare elementi di dubbio sulla sua colpevolezza.

<<No, Carmine non poteva vederlo perché l'altro aveva il viso coperto>> rispose Pierina con enfasi <<è' stato il fidanzato della sorella che ha riconosciuto i lacci usati per legare Carmine come proprietà di Simone. Quella è stata la prova decisiva tratta da una domanda a tranello fatta dal maresciallo a quel suo parente.>> Pierina nello spiegare continuava a sorridere e la giovane nuora invece si indignava considerando quella prova non inconfutabile giacché i lacci potevano essergli stati sottratti a sua insaputa e lo fece presente alla vecchia agitandosi come se in quel momento avesse indossato la toga nell'aula del tribunale ed avesse il potere di difendere Simone.

<<Non erano sicuri che quei lacci li avesse usati proprio lui, non avevano il diritto di condannarlo>> disse Agata quasi accorata e intanto la suocera insisteva nell'accusa:

<<E' stato lui! Ed è un bene che l'abbiano messo in prigione per scontare una pena di due anni che però non ha concluso.>>

<<Bene, allora ho ragione io, si sono ravveduti e lo hanno liberato.>> E intanto ad Agata brillavano gli occhi come se si trovasse ad attendere Simone che usciva dal portone della galera. Ma gli occhi di Pierina erano ben più agitati e combattivi nel chiarire meglio le condizioni in cui il figlio di Rosina Peranu aveva lasciato la prigione:

<<Si, hai proprio ragione, perché è uscito dentro la bara, è morto di tubercolosi causata dal lungo soggiorno nella cella più umida del carcere.>> La vecchia continuava a sorridere in modo apertamente soddisfatto per quel lugubre epilogo.

Intanto Agata la guardava stralunata, incredula per la totale mancanza di pietà verso Simone che lei continuava a vedere piccino, indifeso dentro il corpo di un adulto, che tossiva nella cella umida da cui usciva infine nella bara.

La lotta fra le due donne quel giorno si era fermata apparentemente così. Erano ammutolite e Agata si era alzata per adempiere ai compiti di casa col viso scuro, pensieroso. Più tardi Paolo rientrato dal lavoro le salutò affettuosamente tutte e due, subito dopo, Agata lo trasse nell'intimità della loro camera e appena ebbe richiuso la porta esordì:

<<Oggi ho potuto constatare a pieno la profonda cattiveria di tua madre.>>

Non si accorgeva di quanto male in quel momento procurava a se stessa, a Paolo ed a Pierina, neppure dall'improvviso malinconico distacco degli occhi del marito che pur di sfuggire all'impegno di un giudizio e di una scelta, ricordò col pensiero una piccola storia, sentita quando era bambino, una sera d'inverno, mentre sedeva insieme al nonno vicino al fuoco. Gli sembrava di vedere il vecchio che forse aveva i suoi stessi problemi e parlava col viso ombroso: "E, caro Paolo, devi sapere che tra suocera e nuora non corre mai buon sangue. Neppure Dio è riuscito a farle andare d'accordo, pensa che aveva provato a crearne due di zucchero ed erano quindi dolcissime, ma erano rimaste ognuna sulle sue stando distanti per orgoglio fino a quando non si erano sciolte. E' una storia antica che qui in Ogliastra conosciamo da tempo, io l'ho appresa da mio nonno così come tu la ascolti da me e come un giorno la racconterai a tuo nipote perché il mondo gira sempre nello stesso verso."

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