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Fabio Fanelli

Fabio Fanelli

Sabato, 30 Aprile 2011 22:08

Sa Serretta

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Sa serretta è uno strumento composto da un asticella in materiale metallico con alle estremità due rotelline dentellate di misura differente. Fa parte degli strumenti della tradizione e della cultura tipica dell´Ogliastra. Questo semplice strumento nelle mani delle donne ogliastrine da vita alle straordinarie e uniche forme del pane dell´Ogliastra. La serretta è realizzata solitamente a mano dagli artigiani locali, le rotelline storicamente sono costruite impiegando come materiale di base due monete, tipicamente la ruota piccola con le monete da 20 Lire e la ruota più grande con una moneta da 200 lire. Come il pennello per gli artisti la serretta per le donne ogliastrine rappresenta lo strumento sovrano per realizzare la propria arte. Sapientemente utilizzata la serretta da vita a uccellini e gallinelle soggetti icona dell´espressione artistica locale ,che ritroviamo interpretati in modi diversi nell´espressione artigiana dell´Ogliastra come ad esempio nelle cassapanca.

Sabato, 30 Aprile 2011 21:41

Il Pane di Ghiande

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Tra magia e tradizione, il pane di ghiande ha rappresentato per lungo tempo un alimento della vita ogliastrina, sostituendo il pane d’orzo e di frumento consentendo di superare lunghe e frequenti carestie, era diffuso in tutta l’Ogliastra ma soprattutto a Talana Urzulei e Baunei. Di questo pane hanno memoria solo gli anziani che ricordano d’averlo consumato fino circa un sessantennio fa. Nei testi che descrivono l’Ogliastra del passato sono spesso riportati diversi metodi per la preparazione di questo pane, ma tutti sono accomunate dagli stessi ingredienti: ghiande (Quercus ilex), ceneri di vitigno e argilla.

Nel libro dal titolo Città e villaggi della Sardegna dell'Ottocento, l’Angius descrive con queste parole questa antica arte: L’arte di questo panificio di ghiande è contenuta ne’ seguenti semplici procedimenti, sbucciamento delle ghiande, bollimento delle medesime in acqua schietta, ribollitura delle medesime già ammollite per la prima operazione in acqua, cui si appropriò la viscosità d’un’argilla rossa, con cui fu mescolata, versamento sopra il vaso bollente d’una lissivia fatta con le ceneri del sarmento o del leccioAllora la ghianda stracotta precipitava al fondo della caldaja, e quindi quella pasta si forma in tavolette dalle quattro alle sei once e se ne fa tanta quantità che possa bastare per sei mesi.

Le ricerche condotte da Agugliastra, cercano di riassumere i punti comuni di questa antica tradizione e di chiarire gli aspetti più controversi. Le ghiande, precedentemente sgusciate e fatte asciugare, venivano versate in un sacco di pelo di capra, detto sa taxedda de pistadorgiu, e sbattute su pietra (su un gradino o sul muro), sino a quando non si otteneva la completa asportazione della pellicola che ricopre il frutto. Le ghiande, ora venivano messe a bollire in acqua e successivamente cotte in una liscivia (si tratta di una soluzione liquida), ottenuta filtrando l’acqua di cottura attraverso uno strato di argilla, ricca di ferro, e di cenere di vitigno. La cenere serviva a togliere l'aspro e l'amaro del tannino delle ghiande, e l'argilla dava il glutine necessario a legare l'impasto.

Secondo altre fonti, l’argilla veniva mescolata insieme alle ghiande con dell’acqua fredda e successivamente versata in un pentolone di rame su caddargiu, che conteneva parte delle ghiande sbucciate, la cottura durava circa sei ore durante le quali si aggiungevano delle ceneri di vitigni per facilitare la cottura. Al termine della cottura si ottenevano due tipi di pane: in un primo tempo le focacce dall’aspetto di torrone nero, chiamato lande destinato agli uomini adulti, e in un secondo momento le focaccine simili a polenta scura,chiamate fitta adatte per gli ammalati, anziani e bambini.

Molti, ritengono che il pane di ghiande avesse un alto valore nutritivo e una notevole azione rinfrescante. Le analisi chimiche, condotte su del pane di ghiande fatto preparare a Baunei (nel 1957 e 1984) e riportate dalla rivista Studi Ogliastrini, evidenziano la presenza nel pane di un elevata percentuale di materiale inorganico (argilla e ceneri), pertanto si ritiene che questo pane non avesse un elevato valore nutritivo per via delle ceneri e dell’argilla con cui veniva preparato. Se questa fosse la composizione del pane più consumato, gli ogliastrini potrebbero essere considerati geofagi (mangiatori di terra).

Foto gentilmente concesse dall'Associazione Antichi Cammini (autore Matteo Casula) - www.antichicammini.it

Sabato, 30 Aprile 2011 21:40

Su Pani - Il Pane Bianco

Su Pani

E’ uno dei pani più caratteristici, l’orgoglio delle donne ogliastrine, era il pane delle feste e assumeva forme e decorazioni diverse a seconda delle occasioni, ancora oggi è tradizione portare questo pane durante l’offertorio delle cerimonie nuziali (detto Pani 'e Coia), battesimi ed altre funzioni religiose.

Il pane bianco assume diverse denominazioni a seconda delle località viene detto Angùli, Sìmbula, Partzìa.

Si ottiene dalla lavorazione della semola di grano da cui prende il nome Pani 'e trigu tipico di Lanusei.

L'operazione di crasiadura o carasiadura viene eseguita interamente a mano, adoperando solamente la miglior semola con un po' di sale e facendo uso del lievito naturale (frammentu), finché l'impasto, da giallo, non diventa candido.

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Le decorazioni vengono eseguite con l'ausilio di piccoli attrezzi, la serretta o con delle forbici dalle mani esperte delle donne ogliastrine.

Dopo la cottura il pane bianco appariva particolarmente compatto e chiaro sia all'interno che all`esterno.

Il pane in occasioni di feste e matrimoni viene spesso spennellato con dello zafferano al fine di ottenere delle colorazioni decorative in questo caso assume il nome di Pani Pintau.

In occasione delle festività pasquali viene preparato un altro tipo di pane bianco che veniva ornato con uno o più uova complete di guscio e infornato, in questo caso viene detto S'anguli 'e Pasca o Pani`e Pasca o Cocoi de ou.

 

  

Sabato, 30 Aprile 2011 21:38

Il Modditzosu

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È un pane di grande morbidezza di forma circolare o ovale, di spessore variabile ed irregolare. Viene preparato con la semola di grano duro, ricotta fresca o patate bollite che danno al pane un sapore dolciastro. Solitamente il modditzòsu come anche su pani e trigu viene preparato quando si accende il forno per preparare il pistoccu, come si può ben capire l'attività di panificazione impegna a seconda del nucleo familiare, l'intera giornata di 4-5 donne.

Si trattava di un pane che comunemente era consumato in casa, perché non era apprezzato al punto tale da offrirlo in dono o metterlo in commercio. Inoltre, essendo facilmente deteriorabile, doveva essere consumato entro pochi giorni.

Il modditzòsu oggi si trova sulla tavola di tutte quelle famiglie che dell'arte del pane hanno fatto una tradizione e chi lo mangia solo in rare occasioni, lo vorrebbe trovare tutti i giorni sulla propria tavola.

L'impasto è preparato con pochissima acqua, lievito naturale, semola e un po' di sale, si aggiungono le patate o la ricotta e il tutto si lascia lievitare per un paio d'ore. Dopo la lievitazione, l'impasto è trasformato in pagnotte di forma rotondeggiante o ovale che terminata la cottura, assumono colore scuro e peso considerevole.

 

Ingredienti:

Variante semplice:

  • 5 Kg di farina tipo "00"
  • 50 g di lievito (se la lavorazione avviene in un ambiente caldo la dose di lievito è molto inferiore)
  • sale
  • acqua
Variante con patate:
  • 5 Kg di semola di grano duro
  • 1,5 Kg di patate
  • 50 g di lievito
  • sale
  • acqua

 

Preparazione:

  1. Amalgamare in un recipiente la semola con le patate;
  2. Fare sciogliere il lievito in 40 ml di acqua tiepida e aggiungerlo all'impasto;
  3. Aggiungere circa 1,5 litri d'acqua tiepida, salata a piacere;
  4. Impastare per circa 20-30 minuti fino a quando la pasta diventa morbida;
  5. Qualora l'impasto lo richieda (la pasta è secca) aggiungere mano a mano altra acqua mentre si continua ad impastare;
  6. Lasciare riposare l'impasto per 30-45 minuti;
  7. Prendere delle pagnottelle dall'impasto e dopo averlo passato nella farina poggiarlo in un tavolo;
  8. Avvolgere i lati delle pagnottelle con una tovaglia avendo cura di lasciare scoperta la parte superiore;
  9. Infornare le pagnottelle nel forno a legna a temperatura non troppo elevata e farle cucinare per 45 minuti circa.

 

Per verificare la cottura un sistema tradizionale è pesare con le mani le pagnottelle, se sono leggere sono cotte, mentre se risultano pesanti come il peso di ingresso in forno hanno neccessità di ulteriore cottura. 

 
 
  

 

  

Sabato, 30 Aprile 2011 21:34

Il pane Pistoccu

Cos'è su pistoccu

Il pistoccu è il pane caratteristico dell'Ogliastra.

Le sfoglie di pasta sapientemente lavorate assumono forme diverse, rettangolari o circolari e anche un diverso spessore a seconda dei paesi. Il pistoccu è un pane adatto alla lunga conservazione, fatto di semola e di fior di farina, nelle varianti a base di cruschello o di farina d'orzo. 

Era il pane che i pastori consumavano durante le settimane di transumanza, ma era anche il pane della servitù e dei meno abbienti.

Secondo alcuni studi dell'Università di Sassari si è riscontrato che il pane pistoccu a lievitazione naturale (con il lievito madre "su framentu") oltre che possedere buone caratteristiche organolettiche, ha anche proprietà salutistiche infatti riduce di circa il 25% il tasso glicemico pertanto si ritiene che il consumo di questo pane possa aiutare a ridurre l'incidenza delle malattie metaboliche.

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Come fare su pistoccu

Ingredienti

  • 25 Kg di semola di grano duro
  • 10 litri di acqua
  • 5 kg di patate
  • 800 grammi di sale marino
  • 500 g di lievito naturale chiamato in sardo "su framentu"

Preparazione

Impastare gli ingredienti con acqua tiepida e lavorli fino ad ottenere una pasta elastica e liscia.

Lievitazione

L’impasto viene lasciato lievitare per un paio d’ore con il calore del forno.

Stesura

Dopo la lievitazione i pani vengono stesi col mattarello e ridotti in sfoglie della forma desiderata (rettangolare oppure tonda).

A questo punto il pistoccu è pronto per essere infornato.

Cottura

La cottura avviene nei tradizionali forni a legna che è necessario portare ad una temperatura di circa 450-550°C.

Dopo aver saggiato la temperatura del forno i fogli di pasta vengono inseriti uno alla volta nel forno

Quando i fogli si gonfiano a "palla" sono pronti per essere sfornati.

Dopo la cottura nel forno a legna i fogli di pistoccu, ancora caldi, vengono divisi con un coltello in due sfoglie ("perras" in sardo). 

Is perras devono essere impilate e pressate leggermente per evitare che i bordi si arriccino.

Biscottatura

Una volta che le sfoglie vengono fatte raffreddare potrebbero essere direttamente consumate ma essendo un prodotto destinato alla lunga conservazione è necessario fare un secondo passaggio in forno per eliminare l'umidità, la biscottatura.

Alla conclusione di questa seconda infornata le sfoglie assumono il caratteristico colore dorato e una consistenza croccante.

Il termine pistoccu deriva proprio da questa pratica dal latino bis coctum, cotto due volte

 

Come consumare su pistoccu

Si può consumare croccante oppure inumidito con acqua (solo dalla parte ruvida oppure da entrambi i lati).

Viene utilizzato per accompagnare formaggi, salumi e carni, ma è ottimo anche se spalmato con miele, marmellate oppure con nutella.

Spesso viene utilizzato per assorbire il sughetto di cottura della carne in umido, come la pecora in cappotto.

Differenze con il pane carasau

La differenza principale sta nello spessore infatti il pane pistoccu ha uno spessore di circa 3-4 mm mentre il pane carasau sol 1 mm.

Inoltre il consumo del pistoccu solitamente avviene dopo essere stato bagnato mentre il carasau di norma viene consumato secco.

    

Sabato, 30 Aprile 2011 19:34

Su Frammentu

Cos'è su Frammentu

Detto anche lievito madre è il lievito fatto in casa che ancora viene utilizzato nella preparazione del pane.

Le sue origini si perdono nella notte dei tempi, le nostre antiche madri, già in epoca pan-mediterranea, avevano scoperto che la farina impastata lievita naturalmente.

Come fare su frammentu

La sua preparazione è semplice, si impastano circa 100 g di farina con un goccio d'olio, un cucchiaio di miele ed un po' d'acqua, fino ad ottenere un impasto omogeneo che viene modellato a palla, infarinato e riposto in una terrina e ricoperto con un panno leggermente umido.

L'impasto ora va lasciato riposare per tre giorni in un luogo caldo, stando attenti a mantenere il panno che lo ricopre sempre umido.

Dopo questo periodo di riposo il lievito viene rimpastato con un po' di farina e acqua e lasciato riposare per altri due giorni, alla fine dei quali sarà pronto per essere utilizzato.

Le massaie molto spesso conservavano un pezzo dell'impasto del pane utilizzando come lievito per l'impasto successivo.

Su frammentu prima di essere utilizzato va sciolto con dell'acqua tiepida che verrà utilizzata per impastare la farina.

Sabato, 13 Dicembre 2014 07:58

Su maistru 'e ferru

di Maria Pili

Lavorava meglio la notte : la sua mano teneva l’incudine e il martello come se fosse quella di un gigante che vivevano, si narrava, in questa terra antica.

Tutti si erano lamentati: il rumore così assordante e ripetitivo tanto che non ti faceva dormire o ti faceva diventare maccu . Solo lui sapeva perché trasformava, con le sue possenti braccia, il ferro in oggetti che, inizialmente, potevano fare o del bene o del male. Anzi soltanto lui sapeva o: tutto il paese ne sparlava dietro alle sue spalle con molta cattiveria.

Lunedì, 08 Dicembre 2014 14:21

Sapevamo fare tutto con le mani

di Marianna Fanelli

Sapevamo fare tutto con le mani, sapevamo mungere le pecore e fare il formaggio, sapevamo lavorare le pelli e coltivare la terra. Non c’era bisogno di parlare molto per imparare l’uno dall’altro, bastava guardare con gli occhi aperti il movimento delle mani. Io mi ricordo di un tempo in cui credevo che le mani si muovessero per sapienza loro, libere, rapide e precise. Le mani sono le prime e le ultime parole.

Domenica, 07 Dicembre 2014 18:34

Su’ dottore

di Susanna Ferreli

 

Nonna Maria aveva novant'anni quando è morta e oggi, a distanza di quasi vent'anni, apro il cassetto della sua vecchia credenza della sua vecchia casa. Vi sono poche cose, ma così essenziali ... come questa sua foto nella quale lei ha l'espressione seria e compita che l'ha accompagnata da che ho ricordi di lei.

Il ricordo che mi torna alla memoria, non so bene perché, riguarda i racconti su suo padre. Ne parlava spesso e, un giorno, mi raccontò di quanto avesse avuto paura che lui morisse e di come un barbiere gli salvò la vita.

<<Sento delle urla: 'Su dottore, su dottore!', grida mia madre. Vengo svegliata di soprassalto da queste urla; non capisco e non riesco a muovermi. Seguono altre urla concitate e la casa si anima a giorno, nonostante sia notte, non so, forse le dieci. Mi alzo e, quando le mie sorelle maggiori mi vedono, mi intimano di tornare a dormire. Non posso e vedo che si dirigono verso la stanza dei miei genitori. Di nascosto faccio capolino sull'uscio e vedo mio padre pallido, che suda e non parla perché fa fatica a respirare ... non c'è, in casa nostra, come probabilmente in molte altre, l'abitudine a chiedere cosa stia accadendo, per cui cerco di trovare un modo per accertarmi della situazione senza che nessuno si accorga che ci sono. Mi tremano le gambe, ho paura perché comunque ho capito che mio padre sta male, l'ho visto in faccia e sento ancora il suo respiro stentato. Apro la porta dello stanzino e mi nascondo lì dove nessuno entrerà in questa circostanza e da dove posso sentire cosa succede perché è attiguo alla stanza dove mio padre giace sul letto.

Dopo un tempo che non so definire, arriva un signore, sento la sua voce e la riconosco: è quella del barbiere del paese! Ma cosa ci fa il barbiere se mio padre sta male? Deve fargli la barba prima che muoia? Sono piccola, come dicono spesso in famiglia, e non posso capire. Invece voglio capire. Mi attacco con l'orecchio alla parete, più forte che posso, per sentire il più possibile.

Mia madre piange e lo implora di guarirlo, continuando a chiamarlo "su' dottore". Le gambe non mi tremano più, anzi, non lo so, perché voglio ascoltare e sapere. Per ora so che mio padre sta male, l'ho visto e l'ho capito. Mi ricordo che da un po' di tempo è sempre stanco e una volta l'ho sentito parlare con mia madre e le diceva che il dolore era molto forte e non sarebbe andato in campagna la mattina dopo. Se mio padre non lavora, è una faccenda molto grave.

Resto attaccata alla parete, non sento neanche dolore all'orecchio talmente sono concentrata su ciò che dicono e a cui non mi è concesso prendere parte perché sono piccola. Su' dottore – barbiere dice che userà una benda e la piegherà a forma di quadrato; gli servirà un vaso che contenga il sangue che uscirà dopo aver praticato il taglio. Sento un brivido alla parola "sangue"...

"La luce di questo lume non mi basta, portatene un altro" – chiede il barbiere.

E qualcuna, forse la mia sorella maggiore corre per le scale per riscendere subito dopo, sicuramente con un altro lume, anche se non posso vedere.

Ora su' dottore vuole un liquido "spiritoso" ... Sorrido fra me e me. Che vuol dire liquido spiritoso? Quando mia madre gli chiede se possa andare bene l'aceto e lui acconsente, non sorrido più. So che viene usato per fare addormentare le persone; me lo ha detto una volta mia nonna mentre mi raccontava di un tale che aveva una malattia ai polmoni e lo avevano operato. Ora ricordo ... anche nonna mi ha parlato del barbiere. Allora il barbiere è anche un dottore! E mio padre è gravemente malato. Questi pensieri scorrono nella mia mente mentre continuo a stare attaccata alla parete dello stanzino nel quale mi sono nascosta.

Sento la mamma che fa un sacco di domande al barbiere in tono disperato e lui, forse per calmarla, le spiega tutto ciò che farà: mio padre è quasi privo di forze, ma starà in piedi in modo da perdere i sensi più velocemente di quanto accadrebbe se stesse sdraiato sul letto. Dice che ha un'ernia "incarcerata", cioè intrappolata nella pancia e nell'intestino. Riesco a sentire a malapena e metto insieme queste informazioni. Ecco perché l'altra notte l'ho sentito vomitare!

Su' dottore continua a parlare e immagino che lo faccia mentre si occupa di mio padre perché lentamente mia madre si tranquillizza e me ne accorgo dal fatto che parla poco e io la sento a malapena.

Non sento per niente i lamenti di mio padre, credo sia svenuto. Il barbiere dice che il taglio sulla pancia lo ha fatto per far uscire rapidamente il sangue e far addormentare babbo. Ha usato per questo una lancetta con la lama larga, dopo aver chiesto di alzare la veste a mio padre, di avvicinargli il vaso e le bende.

Per un po' non sento più niente. Silenzio. Ma già il fatto che nessuno urli o pianga, mi rincuora. Dopo un tempo che non so definire, sento nuovamente la voce de su' dottore che chiede di aiutarlo a girare mio padre sul dorso e di portargli acqua fresca per spruzzargliela sul viso. Chiede di dargli l'aceto che gli hanno portato subito dopo il suo arrivo. Tutte si muovono freneticamente, ne sento i passi. Poi di nuovo cala il silenzio, fino a quando inizio a udire dei lamenti flebili, ma in essi vi riconosco mio padre ...

D'istinto, lascio lo stanzino e corro nella sua stanza. Tutti mi guardano ma non mi mandano via. Mio padre è sul letto, respira affannosamente ed è pallido, suda e trema. Non dico una parola, ma il barbiere – su' dottore mi dice che lo ha operato. Dico che si vede perché c'è molto sangue nella stanza e chiedo se mio padre guarirà.

Il barbiere mi risponde che è già guarito, ma che lo visiterà il dottore fra qualche ora.

Sono un attimo confusa, ma poi ho chiaro che per me lui è il dottore, su' dottore.

Era il 1916 e io avevo dieci anni. Mio padre ne aveva trentotto e lavorava in campagna dall'alba al tramonto. Nella mia casa c'era tutto quel che serviva per mangiare bene e anche di più, perché babbo vendeva ciò che raccoglieva in campagna. Lui era un contadino e tutti lo sapevano. Io invece non sapevo che il barbiere facesse anche il medico. Anni dopo ho saputo che su' dottore estraeva anche i denti e che era una sorta di assistente del dottore "fisico", cioè quello vero. Per me era importante che avesse salvato la vita di mio padre dall'ernia "incarcerata", come la chiamò lui. Era dunque un dottore vero>>.

Più tardi, ho saputo che il barbiere – su' dottore era il flebotomo.

Domenica, 07 Dicembre 2014 18:24

S’Atitadora

di Elisa Tuligi

 

Un sogno. Ricorreva insistente da mesi. Ogni notte uguale.

Una chiesa, una piazza, un campanile, una donna vestita di nero, i suoi lunghi capelli di ossidiana scompigliati e sciolti. Urlava, aveva il viso contratto dal dolore e si strappava i capelli chiedendo vendetta al cielo.

Stavo attraversando un brutto periodo e avevo bisogno di allontanarmi, di scordare l’inquietudine che ultimamente mi tormentava.

Scelsi la meta del mio ritiro a caso, o così credevo. La Sardegna, l’Ogliastra, un piccolo paese di montagna dimenticato da dio.

Arrivai in un tardo pomeriggio di marzo, stanco, agitato e curioso. Il paese era come l’avevo immaginato, le case iniziavano d’un tratto, senza preavviso.

Mi diressi al centro prendendo il campanile come riferimento.

Arrivai in piazza, c’era la fontana, la chiesa al centro, il campanile. Tutto come nel sogno.

Mi sedetti nell’unico bar della piazza e sfogliai distrattamente il giornale. Il barista si avvicinò, offrendomi un bicchierino di grappa che assaggiai appena, controvoglia.

«Cosa ci fai qui?» chiese. «Da queste parti ne capitano pochi di turisti».

«Sono fuggito in cerca di pace» risposi laconico. Non avevo per nulla voglia di chiacchierare ma lui proseguì indifferente. «Non è qui che la troverai. A vivere da queste partisi finisce per diventare rozzi e duri come la roccia. Qualcuno va via per sempre, qualcuno impazzisce. Lo vedi quello per esempio?» indicò un uomo seduto poco più avanti. «Lui vive in un ovile su nella montagna e passa le giornate a parlare con le capre. Anche la sua donna è completamente folle. La vedrai, tra poco esce da chiesa».

Osservai l’uomo di cui parlava. Aveva i gomiti poggiati sul tavolo e i lineamenti del viso profondi e scavati come le statuine di legno intagliato, lavorate d’inverno dai pastori della montagna. A quanto pare era proprio lì che viveva.

Mi chiesi se anche il mio viso fosse altrettanto riconoscibile. Sicuramente no, ero solo un banale avvocato con una faccia ordinaria. Invidiavo quel volto forte e caratteristico, quello sguardo eloquente e altero, quei pugni robusti chiusi sul tavolo.

Decisi di aspettare la donna.

La vidi mentre attraversava la piazza. Vestiva una gonna nera, pesante e lunga e una camicetta bianca con il ricamo sul davanti e si stringeva al petto uno scialle di lana. I capelli, neri, erano pettinati a crocchia, precisamente tirati, senza un solo filo fuori posto.

Era illogico. Sembrava impossibile. Aspettai che si avvicinasse ancora ma a pochi passi da me ne avevo ormai la certezza. I lunghi capelli scuri sempre spettinati, erano ora perfettamente ordinati. Il viso adesso era composto e sereno e il suo sguardo fiero pareva più dolce e gentile.

Era la stessa donna che ogni notte mi perseguitava in sogno. Stava lì, in piedi, e mi osservava, con i suoi occhi taglienti fissi nei miei. Trattenni il fiato, come a convincermi che quello che stavo vedendo non era reale.

Non mi veniva nulla da dire. E comunque non aspettò che mi decidessi. Con il suo incedere misurato ed elegante, si allontanò accompagnata dal suo uomo, il pastore dal viso grezzo e infossato.

Ero fiaccato da questi eventi inattesi. Avrei voluto riposare ma già sapevo quale visione mi aspettava e non ero pronto a rivederla lì, di nuovo addolorata e sconvolta, cosi decisi di stare al bar.

Stava per piovere e il vento soffiava nervoso perciò entrai. Gli uomini nel locale parlavano a voce alta nel loro dialetto. Erano interessati a me, come sempre avviene nei piccoli paesi alla presenza di un forestiero. Ordinai acqua vite, cosi chiamavano qui la grappa e bevvi con la gente del posto che diceva frasi incomprensibili e mi picchiava manate pesanti sulle spalle. La stanza era buia e fumosa, io bevevo un bicchiere dopo l’altro e le assi del pavimento cominciavano a vacillare sotto i miei occhi. C’era anche il pastore seduto in un angolo, beveva del vino denso e scuro e stringeva il bicchiere con troppa forza. Mi sedetti con lui.

«È il cielo che ci comanda, dobbiamo rispettarlo e non devi mai contare le stelle, è pericoloso!» Annunciò sentenzioso.

«Tu straniero non puoi capire ma per noi pastori la luna è un orologio appeso alla volta celeste. Da generazioni sappiamo calcolare l’epatta e i giorni del mese che ‘in bintinove no abarrat e a trinta no arribat’, e dalla luna abbiamo appreso che l’anno inizia nel mese di marzo. Per noi la vita è dura. Se nevica è contro di noi, se c’è siccità chi ne piange siamo noi, se c’è la luna rossa ‘erribada sa malasorte’, perché il pastore è sempre solo, e per noi non c’è casa, non c’è paese, non c’è figlio, non c’è festa. La notte abbiamo paura di addormentarci sotto gli alberi perché potrebbe arrivare Su Ammontadore, il demone che soffoca durante il sonno. Certo conosciamo anche dei brebus segreti per scacciare via l’incubo ’origas de istuppa istuppa, origas de ispagnola tottu che essa foras…’» iniziò a recitare sottovoce.

Mi bastarono queste poche parole per capire che qui i pastori non producevano solo latte, formaggi o lana. Appartenevano a un mondo a se fatto di codici e valori unici, un universo rituale che costituiva il nucleo vitale e la cultura di questi luoghi.

Dalla finestra trapelò il bagliore di un lampo. Dalla piazza giunse un abbaiare penetrante di cani accompagnato da un tintinnare di catene indecifrabili. «E chine is morindo?» si chiesero gli uomini al bancone.

Parecchi bicchieri più tardi mi convinsi ad andare a dormire. Una volta fuori mi riempii i polmoni di quell’aria buona e leggera. É questa la vera pace pensavo, ma un lamento coinvolgente e straziante interruppe la mia quiete. Proveniva da una casa a lato della piazza e una forza misteriosa mi spinse fin lì. Una tenda socchiusa mi consentì di guardare dentro. C’era lei. Scura come la morte che aleggiava nella stanza, con il busto dondolante in avanti, ritmica e ipnotica, con il petto battuto dalle mani ossute, con gli occhi inondati da una luce straordinaria e le guance vive d’un rossore selvaggio. Adesso era proprio identica a quando s’incontrava con me nel sonno.

Un giovane uomo senza vita era steso su una stuoia con i piedi verso l’uscio, perché da lì sarebbe partito verso la sua nuova vita. Le tende erano state tirate, le finestre chiuse e gli specchi velati, che lì vi s’impigliavano le anime. Ma come sapevo queste cose?

Lei lanciò un urlo forte e improvviso, un grido lacerante, dopodiché cantò lentamente una nenia che coinvolse tutti fino a un silenzio assoluto. La disperazione la leggevo in ogni suo gesto. Piangeva, faceva ondeggiare la lunga chioma, si tirava i capelli, si graffiava il volto e si strappava le vesti respirando rumorosamente e lacerando con i denti i fazzoletti con cui si asciugava le lacrime. Si buttava a terra e sgridava il defunto per quello che aveva fatto, quasi fosse lui il responsabile. Cantava in rima il suo canto funebre improvvisato, s’attitu. Con il suo canto venduto, lodava e celebrava le virtù del morto.

Lei era il frammento fondamentale di quei rituali necessari ad affrontare la Morte. Era questo il suo mestiere.Lei metteva in scena il dolore.

Ero stregato da questa scena. Quando mi raggiunse fuori sollevò le sopracciglia folte e nere e mi sorrise. Il suo sguardo era sprezzante e superbo ma anche tenero.

«Hai trovato la pace?» mi sussurrò.

Il mio sogno mi aveva trascinato in questo mondo per stravolgere le mie convinzioni sulla vita. Questo paese era stato la mia cura. Avevo scoperto il significato e l’importanza di certi gesti. La forza eterna e magica di questo luogo stava in queste persone. Nelle urla disperate de S’Atitadora, nella solitudine di una vita scandita dal lavoro e dai sacrifici del pastore. A questa gente non importava nulla del futuro. Per loro il presente era sufficiente e si nutriva del passato. Avrei voluto portarli via con me come esempio ma sapevo che erano parte integrante di questa terra, come lo era la rosa di margine, rara e profumata del sottobosco, che sarebbe sbiadita e morta rapidamente se sradicata e messa in un vaso nel balcone inquinato della mia città.

 

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