di
Albino lepori
Per secoli le coste sarde furono toccate dai pirati: prima dagli Arabi, e poi dal Cinquecento, dai Barbareschi (provenienti dalla Barberia, cioè dalla costa mediterranea dell'Africa, da Tripoli sino verso Gibilterra) posti sotto la dominazione turca, una delle cui industrie era la pirateria. Quasi ogni anno, alla bella stagione, da qualche parte dell'isola si spargeva la paura. E, ogni tanto, dalle torri costiere risuonava il grido: «Is Morus, is Morus!».
Le torri erano ben munite e lungo le coste incrociava qualche volta una nave da guerra. Tuttavia, la difesa costiera non fu sufficiente a impedire che le incursioni saracene si ripetessero, tanto che nel 1787 il viceré chiese al bey di Algeri la restituzione dei Sardi catturati nell’isola negli anni immediatamente precedenti e tenuti come schiavi nel suo territorio. Fra i liberati figurano anche sei ogliastrini. Ai primi di giugno del 1806, sbarcarono sulla costa di Tertenia ottocento pirati, trasportati da trenta bastimenti, che dopo aver saccheggiato i campi e rapito due uomini e due donne ed essere penetrati per dieci miglia nell’interno, si reimbarcarono e fecero rotta verso il Nord. Il giorno seguente, nella marina di Gairo fecero schiavi sei Gairesi e ne uccisero uno. A Tortolì e Bari Sardo i Barbareschi catturarono un centinaio fra uomini e donne che trasportarono sui loro legni per venderli come schiavi.
Peraltro, anche nelle nostre città è stato praticato il commercio degli schiavi, sino ai primi dell’Ottocento. All’attività dei pirati barbareschi di cui erano vittime i Cristiani, si contrapponevano le incursioni dei pirati cristiani per catturare schiavi mussulmani. Lo stesso Stato Pontificio e gli Ordini religiosi dei Cavalieri di Malta e di Santo Stefano praticavano la guerra di corsa a fini religiosi e difensivi ma anche a scopo di lucro. E, spesso, si dimostravano più feroci degli stessi Mussulmani.
Di norma, la sorte destinata agli schiavi era molto triste. Considerati alla stregua di una qualsiasi merce del bottino conquistato durante le razzie, essi erano spartiti tra quanti avevano partecipato alla cattura. I più fortunati erano coloro che si convertivano all’islamismo. Il numero dei rinnegati dovette essere considerevole: la maggior parte di essi praticava – spesso ai danni degli stessi paesi d’origine – la guerra di corsa, che permetteva di accumulare ingenti fortune. I più famigerati corsari barbareschi erano, frequentemente, Cristiani rinnegati e ascesi al comando di squadre navali o alle più alte cariche civili e militari. L’esempio di Hassan Aga, il pastorello sardo catturato da Kheyr-Esl-Din, detto Barbarossa, divenuto terzo re di Algeri e ritenuto dai Mussulmani l’artefice della vittoria su Carlo V, che aveva assediato la città nel 1541, è indicativo. Anche per le rinnegate esistevano concrete possibilità d’emergere dai ranghi più bassi della schiavitù. Le vicende di questi schiavi promossi dal destino non vanno confuse con le numerose leggende fiorite nei centri della nostra isola.
Secondo una di queste memorie, una bambina di Eltili, paese prossimo a Baunei, fu rapita dai Saraceni lungo la spiaggia tra Lotzorai e Girasole, e poi venduta al bey di Tunisi. Convertitasi all'islamismo, le fu imposto il nome di Meriem Bentalì. Il suo ritorno nell'isola sarebbe avvenuto quarant'anni più tardi, in seguito ad uno scambio di schiavi. Lei era anche l'unica superstite di Eltili, forse falcidiato e abbandonato in seguito ad una pestilenza. Poiché era divenuta padrona assoluta dei beni del suo villaggio, offrì tutto a Baunei in cambio di ospitalità. Le fu assegnato un terreno vasto più di dieci ettari, cinque capre, due maiali e una capanna costruita nei pressi di una sorgente, a monte Colcau. La donna s’intratteneva tutti i giorni, per cinque volte, nell'uscio della capanna facendo profondi inchini, accompagnati ad alta voce con le parole che aveva appreso in Africa: La ’ilaha ’Illa-llah Muhammadun Rasulu-llah - Non c'è dio ma Dio, Maometto è il messaggero di Dio. Tutta agghindata, raccontava a quelli di Baunei, in una lingua per metà sarda e l’altra incomprensibile, miti e leggende delle persone e dei luoghi conosciuti fuori dall'isola; di là da quel mare che iniziava a Santa Maria e che non sapevano se e dove finisse. Maria Eltili, così era chiamata, conquistò il rispetto e la fiducia di quei paesani che la considerarono subito una maga alla quale rivolgersi, perché invocasse l'intervento del grande spirito che aveva conosciuto nell’esilio.
Un’altra leggenda narra di una contadinella bariese, anch’essa fatta schiava dai Mori. Donata al bey di Tunisi, diventò la preferita del suo harem. Quel sovrano s'invaghì tanto della bella ogliastrina, che da regina dell'harem la innalzò a signora del suo cuore. La contadinella ottenne la più cieca fiducia del suo signore, e ne divenne la moglie. Ebbero un figlioletto, che fu designato dal padre a succedergli nella Reggenza. Un bel giorno, però, approda nella rada di Tunisi un vascello francese. La giovane domanda, come una grazia, il permesso di visitare la nave. Il bey soddisfa il suo desiderio, ma intuisce qualche tranello e tiene con sé il loro pargolo, lasciandole intendere che quello sarebbe stato il pegno per il suo ritorno. Appena lei sale sulla nave, questa si appresta alla partenza. Il potente consorte, capito l'inganno e mostrando e tenendo in alto con le braccia il bambino, minaccia, depreca e la implora che rinunci al suo proposito. Il cuore della donna è di pietra. Essa è ormai indifferente, insensibile al pianto del figlio e alle invocazioni del marito: rapita dall’incolmabile nostalgia per la sua terra lontana. La nave è ormai a vele spiegate, quando il bey, fuor di senno dal dolore e dall'ira, dopo di un'ultima disperata supplica alla donna amata, all'insensibile madre che se ne fugge, cieco di furore, squarta barbaramente il pargoletto, buttandone i brandelli tra i flutti del mare.
Secondo una tradizione del posto, alcuni abitanti di Tertenia furono fatti prigionieri, nel corso di una battaglia con i pirati. Fra loro era anche una donna di particolare bellezza, Maria Pitzettu, che fu tradotta e rinchiusa nelle carceri di Algeri. Tuttavia, l’avvenenza della giovane, unita alle altre sue particolari doti, colpì il sovrano dei Mori che la volle a Corte e le affidò l’educazione del figlio, erede al trono. Quando molti Cristiani poterono, essere riscattati e rimpatriati, ciò avvenne anche per Maria e i suoi compaesani. Il principe moro, intanto, diventato adulto e salito al trono, decise di contrarre nozze. Nei preparativi, egli non dimenticò la sua nutrice che volle ad Algeri. Cosicché, la bella Maria fu accolta festosamente nel palazzo reale e poté assistere alle fastose nozze del giovane sovrano. Terminati i festeggiamenti, il re la supplicò di restare, promettendole una vita felice e ogni ricchezza; ma la donna, attratta dal suo paese natio, ricusò la gentile offerta e fece ritorno in Patria: poté, però, beneficiare degli abbondanti doni ricevuti, per tutta la sua lunga esistenza.
Molti altri episodi delle incursioni moresche sui lidi d'Ogliastra, sono avvolti nella leggenda. Così è per Sa Nai Ammarmurada, cioè la nave marmorizzata, impietrita. Questa fu la denominazione attribuita dalla fantasia popolare a uno scoglio liscio, brullo, scuro, fatto proprio a guisa di nave disalberata, che si troverebbe nella Marina di Tortolì. I Tortoliesi credevano che si trattasse di una nave saracena miracolosamente impietrita, per aver depredato una barca cristiana che, tra gli altri oggetti, aveva a bordo una cassa con dentro una statua della Madonna. I corsari buttarono a mare, in segno di profondo disprezzo, il prezioso simulacro; ma nel medesimo istante la loro nave restò immobile e impietrita: trasformata in uno scoglio inutile, condannato a spezzare i flutti del mare per l'eternità!