di
Elisa Tuligi
Una giovane donna dai lunghi capelli selvaggi e neri era seduta al tavolino del bar e sorseggiava il suo caffè bollente. Lo beveva da sempre uguale come sua madre e sua nonna, nero come il suo futuro, e amaro come la delusione di chi ha creduto nei sogni. Aveva un viso superbo e sfrontato ma non privo di dolcezza e femminilità, e lo sguardo altero di chi sa di essere bella.
Era arrivata da poche ore e ancora si chiedeva il perché di quel viaggio. Il desiderio di andare alla scoperta del suo paese d’origine era sorto in lei improvvisamente e ora dopo due giorni si ritrovava lì, in quell’angolo di mondo dal quale la nonna, ultima superstite di 7 figlie femmine, era fuggita inspiegabilmente 50 anni prima, e dall’ora la nostalgia le aveva segnato il volto.
Da quando la madre di sua madre era morta le erano successe un sacco di cose strane e probabilmente era stato l’istinto della sopravvivenza a spingerla fino a quel pezzo d’isola a cercare delle risposte, come attratta da un’inspiegabile energia.
Si chiamava Veneranda come sua nonna. Da lei aveva ereditato non solo quel nome antico e forte ma anche lo stesso sguardo intenso e impenetrabile, gli stessi occhi neri, lo stesso fascino ammaliatore pieno di forza misteriosa, lo stesso carattere fiero. Condividevano la stessa rassegnazione per un destino triste e ineluttabile, di donne forti ma costrette a una vita di solitudine, senza amore e senza comprensione. Una dannazione che sembrava affliggere da secoli tutte le donne della famiglia. Da quella stessa nonna aveva ereditato anche abitudini bizzarre come quella di raccogliere tutti i capelli che le cadevano quando si pettinava per poi distruggerli nel fuoco, perché come le aveva insegnato, la più piccola cosa appartenente a una persona rappresenta la persona stessa. E dai capelli, come da ogni altro suo oggetto, si poteva agire contro di lei. Cose che non capiva ma che faceva da sempre senza chiedersene il motivo.
Veneranda sapeva che la loro antenata più lontana si chiamava Maria e qualcosa le diceva che in un certo qual modo era lei la causa delle loro sciagure. Se lo sentiva perché in casa la sua storia era da sempre avvolta nel mistero, racconti sussurrati a mezza voce quando credevano che dormisse ma di cui purtroppo poco ricordava. Ordinò un altro caffè nel tentativo di schiarirsi le idee. Era dicembre ma stretta nella sua sciarpa di lana pesante stava bene lì fuori. Sembrava così dolce e tranquillo l’inverno a Baunei ma infondo cosa ne sapeva.
Attorno a lei si respirava il silenzio interrotto solo dal mormorio delle anziane signore che camminavano raggomitolate in accoglienti scialli, rigorosamente scuri, come avvolte da un lutto perenne. Un anziano signore dal volto bruciato dal sole e dai lineamenti profondi e decisi la fissava con insistenza dall’altro lato della piazza, Veneranda beveva il suo caffè e cercava di ricordare quel poco che sapeva sulla sua antenata. Rammentava che Maria fu rapita dai Mori e portata in Africa e che solo 40 anni dopo fece ritorno nella sua terra, a Eltili, poco lontano da lì, ma profondamente cambiata. Pregava e in modo strano, vestiva in modo strano, aveva dei tatuaggi ed era esperta in sortilegi e incantesimi. Forse proprio grazie alle sue doti sovrannaturali fu l’unica a sopravvivere a una pestilenza che si abbatté sul paese e diventò padrona incontrastata del villaggio e delle terre intorno. Stanca di vivere in un paese fantasma si spostò in quelli vicini decisa a donare tutto a chi le avrebbe mostrato un pò di generosità. Durante il tragitto un pastore di Baunei la accolse benevolmente e fu così che in cambio dell’ospitalità Maria offrì in dote i suoi territori al paese, da Cala Luna a “Su ponte ‘e sa pruna”. Entrò così a far parte della comunità, temuta e riverita come una strega per via degli infusi magici e degli unguenti curativi che preparava.
Il pastore che ospitò Maria aveva 7 figli che in qualche modo si legarono indissolubilmente alla donna con una promessa. Gli eredi di queste famiglie, ogni 7 anni, si riuniscono a turno per celebrare una messa nella chiesa di Eltili, unica costruzione rimasta dell’antico villaggio. Quel pastore aveva una sola figlia femmina, l’ultima dei 7. Veneranda era la sua unica discendente rimasta in vita.
Non aveva idea di che ore fossero, ma non prese dalla tasca il telefono per controllare, perché sapeva che in quel luogo erano le ombre, il canto del gallo e i rintocchi del campanile a segnare il ritmo della vita. Lì le campane parlavano, scandivano l’esistenza e il tempo insieme al sole e alla luna e il loro suono era un linguaggio che narrava di gioie e dolori, di vita e di morte.
Stava per alzarsi a chiedere il conto dei suoi caffè quando tre ragazze giunsero nell’incrocio di strade proprio davanti a lei e fecero sdraiare un bambino al centro di esso. Una di loro reggeva una stadera e le altre due sollevarono il bambino posandolo a turno sul piatto della bilancia. La prima pronunciò le parole «geo du peso po fare a malu» e la seconda invece disse «geo du peso po fare a bonu».
Era ancora lì immobile a guardare quella scena surreale quando il vecchio che la scrutava attento le si avvicinò per tradurle quello strano rito. Le spiegò che il piccolo soffriva di un male che loro chiamavano su «gaggiu furriau», lo stomaco rovesciato e questo era il rimedio che doveva essere svolto da tre donne di nome Maria. Erano le regole di questo mondo. Un mondo fatto di sputi utilizzati come “cura” contro lo spavento, di Strie che comparivano poco prima di una disgrazia, di falò accesi il 17 gennaio, e delle sue ceneri raccolte e utilizzate per filtri benefici. L’uomo aveva parlato con calma, la sua voce aveva il suono di una cantilena soave che già conosceva.«Tua nonna era bella ma pazza», le disse prima di allontanarsi. L’aveva riconosciuta.
Veneranda si sentiva ormai parte di quel mondo, nasceva in lei una nostalgia di qualcosa che in realtà non aveva mai vissuto ma che forse risvegliava ataviche memorie registrate nel suo DNA.
Cominciava a fare freddo e il sole ormai tramontava e doveva andare a vedere la casa, la sua casa. Pur non spiegandosene il motivo, non aveva bisogno d’indicazioni. Sapeva di trovarla lì, in cima al monte, dove la terra confinava con il cielo, nascosta da un muraglione in tufo semidistrutto. Ai suoi tempi doveva essere stata grande ma ora non sembrava altro che una vecchia casa abbandonata, forse unica custode di orribili memorie e segreti che nessuno aveva voluto ancora svelarle. Fu allora che sentì quel profumo sconosciuto eppure così familiare. Sapeva già che profumo era. La nonna gliel’aveva descritto così, dolce e pungente. Si girò e la vide. S’orrosa e margine, bella e magicamente viva. E lei sapeva che era troppo presto, che non fiorisce per più di quindici giorni, eppure sembrava essere lì da sempre, immobile. E sapeva dei suoi poteri.
Infilò la chiave nella vecchia serratura arrugginita e il portone si spalancò rumorosamente. Si aspettava di vedere polvere e ragnatele ricoprire ogni cosa invece quel luogo sembrava rimasto inalterato nel tempo. Dalla sua bocca uscirono delle parole incomprensibili che lei non aveva mai udito, mai letto: "Adonay, tarabulis, arabonas, murgas, jerablem, dalzafios, abrox, balaim, gazal". E finalmente capì. La nonna viveva in un mondo fatto di erbe e infusi, di preghiere che odorano di magia, di scongiuri e formule magiche, di saperi profondi che però avevano a che fare con la vita e con la morte e che si erano trasformati in una maledizione e l’avevano costretta alla fuga dalla sua terra. Adesso quel mondo era anche il suo perché certe cose si ereditano e basta. Come la pelle olivastra e il colore degli occhi, come il caffè. E non tele spieghi. Perché i legami con il sangue e con la terra sono per sempre, oltre la vita e oltre la morte. Veneranda ora sapeva. Era una strega. Come sua madre, come sua nonna, come lo sarà sua figlia, come lo era Maria. E aveva deciso di non scappare perché nelle sue radici stava la sua forza.