di
Emiliano Manca
“Abbìla, abbìla,
a pes tira-tira,
a pes ti pongio a modde.
E ti facas de fodde,
de fodde ‘e orciada.
Bai in ora mala!”
La voce di tziu Sidoru è stentorea. I suoi piedi affondano nell’acqua del torrente, il suo sguardo è rivolto all’aurora, le sue mani strigono una fascina. Il bambino non dovrebbe udire le parole della formula. Accovacciato dietro la roccia grigia, cerca di cogliere i versi che presto l’anziano pastore tramanderà ad un altro uomo della famiglia, perché prenda il suo posto quando non ci sarà più. Gli hanno detto che se viene ascoltata da chi non è destinato a conoscerla, quella formula perde la sua efficacia e non riesce ad incantare l’aquila che razzia gli agnelli del gregge. Ma lui non si è fidato, e per avere la certezza che il suo piano riuscisse ha voluto alterare anche un’altra parte del rito: spera che tziu Sidoru non si accorga del geco morto che lui ha nascosto dentro la fascina prima che l’uomo la portasse con sé al ruscello.
È stato tre giorni fa, al tramonto. Sua madre l’aveva mandato nella legnaia a prendere un ceppo per il camino e, appena messo piede in cortile, ha scorto qualcosa che si agitava in mezzo allo spiazzo di terra. Avvicinandosi, ha raccolto un aquilotto spaurito. Non sa come potesse essere capitato lì. Forse un falco o un corvo l’aveva rapito dal nido e poi gli era scivolato dagli artigli. Non era ferito, ma tremava e sembrava affamato. L’ha accudito, nutrito, sistemato al caldo per la notte dietro la legnaia. Non ha detto niente in casa: sapeva che non gli avrebbero mai permesso di tenerlo. La nottata è trascorsa insonne, per la paura che qualcuno udisse il pigolare disperato dell’uccellino. All’alba del giorno dopo, lui è stato il primo ad alzarsi.
Sulla soglia del cortile è rimasto a bocca aperta.
Un’enorme aquila posava sulla legnaia e lo fissava. Era lì come lo stesse aspettando, serena e silenziosa, con il piccolo in mezzo alle forti zampe. Lui ne ha retto lo sguardo, stranamente non impaurito. E l’aquila gli ha parlato.
-Hai accolto mio figlio, come posso sdebitarmi con te?-.
La sua voce era fredda e lontana come il vento sulle creste. Il bambino non riusciva a muovere un muscolo, ad articolare un suono. Ma lo sguardo dell’aquila lo ha rassicurato.
-Perché porti via gli agnelli?-
-Perché devo mangiare, e dare da mangiare ai miei piccoli-.
-Non potete mangiare qualcos’altro?-
-E voi non potete?-
-Noi?-
-Non vi piace che mangiamo gli agnelli perché volete mangiarli voi…-
-Ma sono nostri!-
-Vostri? E chi ve li ha dati?-
Non si sarebbe mai aspettato una domanda simile.
-Non lo so…-
-Allora te lo dico io, cucciolo d’uomo. Noi aquile voliamo su queste terre da prima che la tua gente le occupasse. La terra non era di nessuno, e voi l’avete recintata. Le piante non erano di nessuno, e voi le avete sradicate per costruire le vostre case. Gli animali non erano di nessuno, e voi li avete catturati, rinchiusi, cacciati, macellati. Ogni cento agnelli ammazzati dall’uomo ce n’è uno rapito dalle aquile. Certo che potremmo smettere di rapirli, ma perché dovremmo?-
Il bambino è rimasto senza risposte. E senza domande.
-Stammi a sentire, cucciolo d’uomo. Tu hai trattato bene mio figlio ed io tratterò bene te. Da oggi non rapirò più gli agnelli della tua famiglia. Ma questo patto tra noi deve durare. C’è una formula che la tua gente recita contro di noi, per impedirci di calare sulle vostre greggi. Ma ogni volta che la magia ci colpisce, noi non possiamo volare per giorni, e i nostri piccoli muoiono di fame. Allora il patto che ti propongo è questo: io risparmierò il vostro gregge fra tutti e dirò alle altre aquile di fare lo stesso. In cambio, tu impedirai che la formula sia usata dalla tua famiglia contro di noi-.
Il bambino ha accettato e l’aquila si è alzata in volo senza più una parola, portandosi via l’aquilotto.
Mentre tziu Sidoru termina di recitare i versi e si incammina verso l’ovile, il bambino si appiattisce contro il granito e trattiene il respiro.
Molti anni dopo, un uomo siede su una pietra in mezzo alla campagna e guarda pascolare davanti a sé l’enorme gregge che ha ereditato. Ha ancora un ricordo vivido di quella mattina al torrente con l’anziano che recitava la formula, ignaro della sua inutilità. Il petto gli si gonfia d’orgoglio, come ogni volta in cui cerca invano di contare i suoi capi e si arrende, mentre la macchia bianca di lana si perde alla vista come un orizzonte remoto.
Di anno in anno, gli stratagemmi per rendere inefficace la formula sono cambiati, ma hanno funzionato sempre. Il gregge della sua famiglia è stato risparmiato dalle aquile, divenendo il più grande delle valli circostanti. Gli altri ovili sono invece falcidiati dai rapaci ogni volta che le pecore partoriscono. La fama dell’enorme gregge che non subisce perdite si è sparsa in tutta l’Ogliastra, fino alle Barbagie ed anche oltre.
L’uomo avverte un tocco freddo sulla nuca. Lentamente, alza le mani e si leva in piedi. Il forsetiero alle sue spalle non dice una parola e non gli permette di girarsi, continuando a premere la canna del fucile contro la pelle. Non può vedere il suo volto. Cerca allora di aguzzare lo sguardo per riconoscere almeno uno dei due complici che escono dai cespugli e iniziano a catturare gli agnelli. Ma sono le prime luci dell’alba, e gli uomini stanno mettendo le mani sui capi più lontani del gregge immenso.
Quando la razzia si conclude, i forestieri hanno riempito due carri enormi. Sente il colpo secco del calcio del fucile contro la sua testa, e la coscienza che lentamente scivola via.
Quando rinviene, il sole è alto. La sua testa vortica e pulsa. Lo sguardo fatica ancora a snebbiarsi. All’inizio non ricorda, poi la disperazione lo assale e lui scatta in piedi nonostante il dolore. Ha il cuore in gola mentre lascia vagare lo sguardo davanti a sé. Ma il gregge pare ancora sterminato, come nulla fosse accaduto. Sulle prime pensa di avere sognato, ma il capogiro lo smentisce.
Allora sorride amaro: tanto grande è diventato quel gregge, che nemmeno una razzia come quella lo ridimensiona. Chissà allora quante ancora ne subirà…
Il cielo è limpido, solcato da un’aquila.