Non ho più unghie. Finite, rovinate, mangiate da questa terra, dura. E sì che di terra dura ne ho visto io, che da piccolo ho aiutato nonno. L'ho aiutato con la zappa, non con le unghie. Ora, per arrivare a un piede rosa, voglio unghie più forti e più intere delle mie. Vertice ultimo di animale, cibo. Io che animali ne ho mangiato, dopo averli fatti nascere, crescere e averli uccisi. Santificati all'unico dio in cui abbia mai creduto: la mia pancia. E sì che da zappatore di terra sono diventato raschiatore di terra e da pastore son diventato beccamorto al contrario. Tolgo fuori i morti da terra per mangiarli. No, mica uomini, cosa avete capito. È che qui sono tutti matti. Va bene, partiamo dal principio, se no non ci capiamo. È che un principio questa storia non ce l'ha, perché ha due protagonisti diversi. E dove suona l'uno, l'altro balla.
Sarà all'incirca metà mattinata, lo vedo dal sole tra i rami, che sono braccia di leccio enorme, come solo casa sa fare. I boschi di casa crescono impenetrabili, tela di ragno dura, che abbraccia ogni singolo sasso per dargli spessore per poi, come avesse scherzato, tendere le braccia al mondo aprendosi al tutto. E il tutto è lo specchio del Mare di Sardegna, così come lo vedo io ora.
Punta Niedda. Una archibugiata a sale nero, caricata dall'onnipotente. Ché forse non era così esperto e si stava sparando a un piede, nel sandalo. Com'è o come non è, i grani della carica sono sparsi qui, grandi come rocce grandi. Gli scogli stanno sull'acqua, pigri, e mi guardano. Ma io non guardo loro, che ho il gregge. Gregge di capre, e le capre fanno di testa loro. E chi se ne frega, poi, degli scogli. Sbaglio. Il freddo che sento nel collo non è aria di mare. È lama. È koummya. All'epoca non so ancora che si chiama così, ma lo imparerò presto. È un coltello. Un coltello berbero.
Come uno senza una mano. Io le mani le ho entrambe, ma è di dita che parlo. Eja, di dita. Per contare gli anni passati da quel giorno, la mattina in cui ho imparato cos'è una koummya, servono le dita di uno senza una mano. Quindici.
La galera berbera è enorme, legno agile sul mare di Sardegna. La prima notte sulla nave è calma, nessuno mi cerca, nessuno mi guarda. La seconda è terribile, mani che stringono remi, le braccia si muovono al ritmo delle fruste. Le fruste danzano al ritmo del sangue. L'acqua è indifferente. La schiuma bianca sale, bocca di cavallo stanco, e noi siamo muscoli. I muscoli si usano, non si piangono. Ma che muscoli può avere uno senza una mano? Io ce le ho entrambe le mani, ma quindici sono gli anni da quella notte, quindici anni che sono qui. Non più zipones, non più lesorzas o muschetes per noi. Ora solo burda, turbanti, scimitarre e carne di capra. Per loro, per i padroni. Per noi tuniche, stracci arrotolati in testa e grosse pietre rettangolari. Costruiamo palazzi ricchi, in cui non entreremo mai. Scegliamo le pietre che facciano pendant con la nostra fame, con la nostra sete, con una fede mai avuta.
Me lo ricordo ancora il mercato. A cosa serve dirvi dei nostri abiti stracciati per mostrare la carne. Mani di seta controllano la mercanzia, enormi porticati di pietra e legno, disegni sulle piastrelle, sangue nelle latrine. A cosa serve?
Sono cinque anni che lo non vedo, insieme trasportavamo pali di legno per far rotolare i massi. Perantoni è sardo, come me, ma non pensa come me. Dice che sono molti i sardi rapiti, e dice che tanti sono diventanti importanti schierandosi dalla parte dei mori. Generali forse, uomini d'arme. No, dice, anche pastori, contadini. Io non sono nemico del profeta, non più di quanto sia amico del papa. Sono nato povero e povero muoio, poca differenza ci passa. Anche se il cisto mi manca. Mi manca il ginepro e mi mancano i lecci. Gli ulivi e le olive. Cinque anni che non vedo Perantoni, ché forse ora lui è un capo. Io trasporto massi, grossi, e ho fame. E stasera, come ogni sera, zapperò. Con le unghie.
Il popolo delle tende dorme, senza via di mezzo. Un giorno è guerra, il giorno dopo ti abbracciano. Oggi banchetti con loro, domani digiuno. O stanno in tende, o costruiscono palazzi. Loro non banchettano con me, e io ho fame. Io non vivo nei palazzi, ma nella tenda. E loro sembrano in pace. Ma presto sarà guerra.
Sarà guerra e lo sento quando una voce urla, forte e ferma:
-Cristiano!
Mi volto e li vedo, l'unico cristiano qui sono io. Inginocchiato come se pregassi, ma non prego. Mi prostro all'unico dio che conosco, la fame. Loro mi guardano con disprezzo, come si guarda un verme. Loro sanno. Sanno che l'ho già fatto più volte, ora ne hanno le prove.
Oggi vedrò il palazzo, dicono sia bello. Cento volte più bello del palazzo del re a Casteddu. È che io a Casteddu non ci sono mai andato. Però ho visto il Ksar, alto nelle sue mura alte, larghe e possenti. Le guardie, pensanti mantelli e lunghe lance. Bellissimi. Il cortile interno dura il tempo di violentare i miei occhi con colonnati di tre colonne ognuno, gli archi si incrociano, non capisco come facciano a non sciogliersi, ché non hanno nodi. Ora sono dove devono stare i colpevoli, il naso un palmo dal tappeto. Accusa infamante. Per il loro costume, per il loro dio. Per la mia fame no. Magari non cosa di cui vantarsi. Ma ne abbiamo visto di peggio. L'uomo col turbante seduto sulla enorme sedia di legno parla. È sua la lingua, la stessa che parlo con le guardie, la lingua che capiscono i mercanti e i bottegai, i pastori e i tagliagole. Ma usa parole diverse, parole strane. Strane, ché mi aspettavo scimitarre sul mio collo o corda intorno alla gamba, trascinato da un cavallo. Reali di Sardegna e Spagna. Ecco di cosa parlano mentre riesco a contare le trame del tappeto. I disegni geometrici si ripetono, moduli divini perfetti nelle simmetrie, ma io penso al mio destino, che credevo destino di morte e ora sembra destino di nave. Le trame e i disegni del tappeto, tutti uguali. Anzi, no, uno è diverso, manca un piccolo particolare per essere perfetto. Io vivo qui da quindici anni ricordate? Come uno senza una mano. Ormai certe cose le so. I figli del profeta lasciano sempre ogni loro opera d'arte con un piccolo particolare mancante. Ché la perfezione non è terrena, è solo di Dio. E Dio è più grande. Più grande di cosa? Più grande di tutto. Ed ecco che il mio destino non è più simmetrico, manca una parte. Manca la mia morte, e il mio peccato merita la morte. Avevo fame e ho trasformato le mie unghie in zappa, per scavare. Erano morti, peste dicono. Ma quella peste agli uomini non fa nulla, solo agli animali. Che poi loro non ne avrebbero mangiato uguale. Io ho visto quella zampa di maiale, l'ho dissotterrato e cucinato. Ed era buono per la fame e buono per la vita. L'ho fatto più volte, ma i lunghi mantelli mi hanno visto. E ora parlano di reali sardi, di denari. Sono ancora buono per qualcosa. Il resto lo scopro nel viaggio che mi aspetta, salvo, salvo dai seguaci del profeta, torno nelle mani della cristianità, coi frati mercedari che pagano, reali sardi, per riportarmi a casa. A casa.
Ho vissuto lontano per quindici anni, come uno senza mano. Cos'è casa? La torre di Barì è dove l'avevo lasciata, veglia su sassi che sono pallettoni di Dio, su scogliere seni di madre. È appena scendo sulla terraferma che capisco che ho sbagliato. Quindici, non come uno senza una mano, ma come uno senza un piede. Zoppico. Cammino bene, dritto, ma zoppico. Non so come si saluta la gente, parlo e inciampo con le parole, non capisco, parlano strano, parlano diverso. O Dio mio, questi sono diversi. Dove sono i mantelli, dove i turbanti, la burda, dov'è? Non capisco cosa dicono, mia madre non ha più latte per me nel suo seno.
Ora, qui, sull'orlo di un burrone che diventa costa, sono libero. Libero di morire di lama, ché non capisco come parlano. Libero di morire di fame. Finalmente sono libero di non riconoscermi. Il mio monte non è mio, e il deserto, mai stato mio, è lontano e mi manca. Certo non mancano le frustate. Ma i compagni sì. E mi manco anche io.