di

Albino Lepori

 

Secondo una leggenda riferita da Aristotele in Sardegna vigeva il costume di dormire presso gli eroi; vale a dire presso le dimore degli eroi, che sono le tombe. Questi eroi sarebbero i figli di Ercole e delle Tespiadi, che guidati da Iolao, intendevano colonizzare la Sardegna. Essi da morti avrebbero conservato intatti i loro corpi, così da avere sembianza non di cadaveri, ma di dormienti.

Sotto la veste greca, s’intravede in questa leggenda una credenza sarda genuina. Gli eroi che i Greci tradussero in linguaggio mitico ellenico, erano eroi nel senso di avi eroizzati: ed erano sardi, così, come il rito dell'incubazione presso le loro tombe. Dal rito, dall'usanza, dalla pratica religiosa sorge qui, come in molti altri casi, il mito.

Iolao (Ιόλαος), secondo la tradizione risalente a Timeo, riferita da Diodoro, è la figura eroica dell’occupazione greca della Sardegna. Narra il mito che Ercole, essendo ancor fanciullo, ebbe dalle figlie di Tespio, re di Tespie, cinquanta figli; dei quali quaranta secondo il comando dell'oracolo, egli inviò in Sardegna, accompagnati dal suo amico ed auriga Iolao, affinché ivi venisse da loro fondata una colonia.

Iolao, dunque, presi con sé i Tespiadi e altri molti, che vollero prender parte all'impresa, fece vela verso quest'isola e vinti in battaglia gli indigeni, prese, per sé e per i suoi, le più belle e le più fertili regioni che ancora al tempo di Diodoro si chiamavano Iolee. Egli attese a piantarvi alberi fruttiferi, fece venire dalla Sicilia Dedalo, perché gli fabbricasse edifici e sacri e pubblici. Le genti che avevano seguito Iolao vollero, per onorarlo, esser chiamate Iolaesi o Iliesi, anziché Tespiesi. Quando morì, la sua tomba divenne un santuario: sepulchro eius templum addiderunt. E continuarono per molte generazioni a considerarlo come il loro dio eponimo, chiamandolo Iolao padre. Ciò, dimostrerebbe come tra Iolao e gli Iolaesi (ovvero, Iliesi) esista la stessa relazione onomastica che intercede fra Sardo (Σάρδος) e i Sardi e la Sardegna.

Peraltro, i Greci non riuscirono, mai, a fondare una città in Sardegna. Cosicché, i loro vari tentativi d’impadronirsi dell’isola rimasero soltanto nella tradizione e furono, per così dire, involuti in questa mitica leggenda di Iolao e dei Tespiadi. Ai Romani si attribuisce l’elaborazione di un differente racconto, acquisito dalla tradizione, non solo orale, delle nostre genti.

Secondo la leggenda tramandata da Pausania e Silio italico, un gruppo di Iliesi fuggiti dall'ormai distrutta Ilion (Troia) furono sbattuti ai sardi lidi dalla tempesta che, salpando dalla Sicilia, li colse nel Tirreno e li strappò dalla flotta di Enea, quando fatto profugo dalla sua città incendiata dai Greci, vagava in cerca di nuovi destini. Essi sarebbero approdati sulle coste ogliastrine ove si sarebbero stabiliti. Gli antichi Ogliastrini hanno sempre creduto d’essere di razza troiana; e perciò, avendo fatto guerra ai Romani, essi si vantavano di non averne paura, perché essendo anche loro di stirpe troiana, avevano abbastanza coraggio di far fronte alle loro agguerrite falangi. Una successiva ondata migratoria di genti africane li avrebbe costretti a trovare rifugio nella zona montuosa e impervia dell'interno.

Per altri studiosi, invece, gli Iliesi sono il popolo indigeno più antico della Sardegna. Venuto dal Nord dell'Africa, possedeva le parti migliori dell'isola e costruì le tombe dei giganti e i nuraghi. Secondo lo storico Ettore Pais, a torto Pausania li distingue dagli Iolaesi, mentre senza minimo dubbio erano lo stesso popolo che onorava il suo eroe eponimo Iolao. Piuttosto, Iolao e gli Iliesi si distinguono dai Sardi e dal Sardus Pater: erano due divinità eponime, due eroi divinizzati, ma essi erano pure gli dei di due popoli se non diversi in origine, certo distinti nel tempo.

Con la conquista della Sardegna da parte dei Cartaginesi, mal sopportandone la prepotenza, gli Iliesi si associarono ai Balari per ostacolarne la penetrazione. E si ritrassero da parte dei loro territori, concentrandosi nella zona montagnosa che circonda il “tacco” calcareo che da loro ha preso il nome, Perda ’e Liana, ancora nel XIX secolo chiamato Perda Iliana (Pietra degli Iliesi).

Perda ’e Liana con i suoi 1.293 metri sul livello del mare costituisce il "tacco" calcareo più emergente, oltre ad essere uno dei più caratteristici dell'isola. È visibile da un intorno molto vasto, dà l'impronta alla regione e costituisce per la Sardegna centro-orientale un punto di riferimento pressoché costante. Cosicché, l'Ogliastra montagnosa e allo stesso tempo protesa sul mare, può per così dire, fregiarsi di due singolari emblemi: la Guglia (Aguglia) che si riflette nel mare azzurro, e Perda ’e Liana, solitario bastione montano.

La rocca è visibile anche da S’Arcu de Corr’e Bòi, un totem lunare che si contrappone al simulacro fallico, della “verticale” Iliana: nel classico binomio “Dea fecondata – dal – Dio fecondante”. I nostri padri, che disseminarono di menhir l’intera Sardegna, avevano nella rupe Iliana l’unico vero Grande Totem naturale, in dialogo con la Falce Lunata, divisi-uniti da vallate ricche d’acque perenni. È tradizione che gli abitanti della Barbagia e dell'Ogliastra vi convenissero per porre termine ai loro dissidi e alle loro contese: era, quindi, prescelto come altare di pace e di concordia. Nella piana intorno alle sue pendici, si riunivano anche i capi dei vari villaggi per discutere e assumere una comune posizione sui più importanti problemi, in particolare quelli riguardanti le linee di condotta della difesa, nei confronti degli invasori.

Cartagine si era resa padrona delle coste, delle pianure e delle fertili vallate. Agli indigeni rimasero i paesi montuosi e del centro: la Gallura ai Corsi; il territorio di Nuoro, le Barbagie e l'Ogliastra, ai Balari e agli Iliesi.

Anche dopo l’occupazione romana, gli indigeni continuarono le scorrerie, tanto che Roma dovette inviare più spedizioni al comando di valenti generali. Che gli Iliesi fossero dei forti combattenti lo confermano gli storici: Plinio il Vecchio che li annovera tra i celeberrimi populorum e Livio che li ricorda come avversari ostinati e ostili alla supremazia di Roma. È probabile che con l’invasione dei Vandali, essi riprendessero in pieno la loro vita indipendente.

Durante il periodo bizantino, i Barbaricini, capeggiati da Ospitone, furono ostacolati nelle loro incursioni dalle truppe imperiali al comando del magister militum Zabarda. Interessato alla questione, papa Gregorio Magno, che era preoccupato per l'idolatria ancora diffusa nell'interno della Sardegna, scrisse sia a Zabarda, sia a Ospitone, già cristiano, invitandoli all'accordo e sollecitando quest'ultimo a curare la conversione della sua gente.

Gregorio a Ospitone, capo dei Barbaricini. Poiché nessuno del tuo popolo è cristiano, anche da ciò io argomento quanto tu sia superiore agli altri, trovandoti fra essi il solo cristiano. Mentre, infatti, tutti i Barbaricini vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, ma adorano legni e pietre, tu, per il solo fatto che veneri il vero Dio, hai dimostrato quanto sei superiore a tutti... al servizio di Cristo, in cui tu credi, dovrai impegnare la tua posizione di preminenza, conducendo a Lui quanti potrai, facendoli battezzare e ammonendoli a prediligere la vita eterna.

L'invito fu accolto da entrambi e nel 594 fu stipulata la pace; così, sia pur lentamente, i Barbaricini si convertirono al Cristianesimo.

Il Tirso servì di confine ai Bizantini per scacciare i ribelli indigeni. A tal fine, fu fortificato Forum Traiani, per la sua eccellente posizione. I Barbaricini orientali, discendenti degli antichi Iliesi, erano, invece, attestati a Nord del Flumendosa. Proprio dove sorgerà l’antica Diocesi Barbariensis, con san Giorgio vescovo. Poi detta: d’Ogliastra.